Malasanità, il giudice condanna l'Usl di Belluno
Riconosciuto ad una paziente un maxi-risarcimento da 400.000 euro
Un foto di repertorio inerente un intervento chirurgico in una struttura sanitaria nazionale
BELLUNO. Nove anni fa entrò al "San Martino" per operarsi ad un'ernia. Ne uscì con convulsioni, dolori immani alla schiena e fitte all'addome. Da allora la sua vita s'è trasformata in un inferno. Ieri mattina, il giudice Federico Montalto ha stabilito che la paziente, una bellunese di 50 anni, fu effettivamente vittima di un caso di malasanità ed ha condannato l'Usl 1 a riconoscerle un maxi-risarcimento da oltre 400.000 euro. Saranno ora le assicurazioni dell'Azienda sanitaria a rifondere alla donna (assistita dagli avvocati Luca Di Pangrazio, Simone De Zorzi e Andrea Allegro) i soldi, stabiliti in sentenza dal giudice del tribunale civile di Belluno. La via crucis sanitaria della paziente bellunese è iniziata nel marzo del 2002 quando, all'ospedale "San Martino", si operò ad un'ernia. Pareva che tutto procedesse regolarmente e gli iniziali dolori sembravano far parte del normale decorso post-operatorio. Ma col passare del tempo, i dolori, soprattutto alla schiena, invece di diminuire, aumentavano. Per i primi giorni strinse i denti. Poi anche lei, donna forte, poco più che quarantenne, sposata, con figli minori da mantenere assieme al marito, tornò in ospedale chiedendo di fare qualcosa per lenire quei dolori. Da allora lei, dopo 9 anni da quella banale operazione all'ernia, col dolore s'è rassegnata a convivere, costretta, per calmarlo, ad assumere quotidianamente "bombe" di morfina. A vederla sembra una donna normale. In realtà la sua vita, dopo quell'operazione all'ernia, peraltro "perfettamente riuscita", è cambiata di colpo. Non può più lavorare (la commissione medica dell'Usl l'ha dichiarata invalida al 100 per cento e "non collocabile al lavoro"), può solo fare brevi passeggiate, se si deve muovere in auto è costretta a fare diverse tappe, può solo sedersi sul morbido (le panchine in legno o ferro le farebbero male alla schiena). I suoi giorni durano poco. La mattina riesce a stare in piedi, al pomeriggio è già in pantofole e pigiama perché non resiste a stare in piedi per tante ore. Se poi un giorno deve fare un viaggio più lungo o uno sforzo maggiore deve anche prendere una maggiore quantità di morfina. Col risultato che il giorno dopo paga dazio e sta più male del solito. Cos'è successo, allora, dopo quell'operazione? Che, inspiegabilmente, ha contratto, tramite un batterio, un'infezione del disco, una "discite cronica". Quasi sicuramente il batterio lo contrasse durante l'intervento chirurgico all'ernia. Un'ipotesi probabile è che sia stato un bisturi non sterilizzato. Ma potrebbe essere stato anche altro. Sta di fatto che i periti incaricati dal giudice ad analizzare il caso hanno ammesso la responsabilità dell'azienda sanitaria. La perizia non si è soffermata tanto sulla causa che ha provocato l'infezione quanto sul ritardo col quale i medici l'hanno diagnosticata. In altre parole, se i medici avessero diagnosticato subito il male e non avessero fatto passare ben 19 giorni dal giorno dell'operazione per capire cosa affliggeva la paziente, tutto si sarebbe concluso con cure che avrebbero risolto subito il problema. Invece ora la vita di una donna e di un'intera famiglia è stata letteralmente stravolta da un caso che non si può non definire di "malasanità", alla luce della perizia depositata da esperti nel campo delle consulenze medico-legali. Da 9 anni le sue condizioni non le permettono più di vivere normalmente. Per sei mesi ha dovuto vivere col busto gessato, senza parlare dei mesi di ricovero in ospedale scanditi da una potente cura antibiotica e antidolorifica a base di punture di "Lixidol". Ad un certo punto, dopo quasi 600 punture, la pelle della paziente era così tumefatta che i medici sono stati costretti a farle ingerire gli antibiotici per via orale. Nel frattempo la donna, che prima faceva la commessa, ha perso il lavoro ed in questi anni ha dovuto pagare una fortuna per visite specialistiche e viaggi in lungo ed in largo alla ricerca di una cura per l'infezione contratta. Alla mattina non riesce neppure a vestirsi o a piegare la schiena per allacciarsi le scarpe. Con il solo marito che, in questi anni lavorava, un solo stipendio da magazziniere non è bastato. E la famiglia ha dovuto "umiliarsi" ad andare a chiedere aiuto ad associazioni e alla Caritas, anche indebitandosi. La perizia che, a suo tempo, ha dato torto all'Usl aveva costretto le assicurazioni dell'azienda sanitaria a fare un'offerta in via stragiudiziale che ponesse fine alla causa senza arrivare alla sentenza del giudice. La cifra si aggirava attorno ai 300.000 euro. Una cifra che i legali della donna, tabelle alla mano, non hanno ritenuto all'altezza del male procurato alla cliente e delle spese fatte per curarsi. Per questo motivo hanno deciso di proseguire la causa fino alla fine. Una scelta che ha dato loro ragione. Oltre 400.000 euro di risarcimento sono stati riconosciuti ieri dal giudice del tribunale civile. Una cifra che ripaga solo in parte una donna che da anni è costretta a frequentare ospedali e a convivere con forti dolori. La cinquantenne bellunese ha voluto ieri spendere parole di gratitudine: «In particolare vorrei ringraziare i miei legali, gli avvocati Di Pangrazio, De Zorzi e Allegro per essermi stati vicini in questi anni ed avermi esortato a non cedere nei momenti di sconforto e l'associazione "Insieme si può"».
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