Marco, un ricercatore tra le montagne bellunesi: «Qui può nascere una silicon valley»
Trentuno anni di Celat, non vuole lasciare la sua terra d’origine. «Tanti edifici dismessi, perché non ospitare start-up tecnologiche?»
BELLUNO. La frase che ha scelto per il suo profilo su WhatsApp è “I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi”. Sono parole del grande scrittore tedesco Johann Wolfang Goethe. Impossibile non cercare di pagarsi subito la curiosità e di chiedere a Marco Rossi, appena seduti al tavolo “a péde del fornél” , di rivelarsi e di spiegare in cosa consiste il piano di studi. Si scopre che questo ragazzo di 31 anni di Celat di San Tomaso ha inserito la stessa frase nell’introduzione alla tesi di dottorato in ingegneria sul comportamento dinamico di sistemi discontinui discussa con profitto lo scorso novembre. Non solo.
Nel volume ha fatto stampare altre tre citazioni: una di Tito Livio Burattini, l’inventore del metro, nato ad Agordo nel 1617, un’altra di don Antonio Della Lucia, il fondatore a Canale d’Agordo nel 1872 della prima latteria cooperativa d’Italia, la terza di Luigi Lazzaris di Celat di Vallada che, a fine’800, scrisse un poema in vernacolo per raccontare la vita quotidiana in montagna nelle quattro stagioni. Il programma di Marco Rossi, a volerci veder dentro, è già tutto qua. O quasi.
«Ma sì», dice con un pizzico di imbarazzo, «fra i discepoli silenziosi dei monti muti vorrei esserci anch’io. La montagna mi è maestra con la sua cultura, con il modo di vivere della sua gente, con la sua concretezza nel risolvere i problemi che ti trovi davanti mettendo tutta la competenza possibile. Qui c’è la possibilità di un contatto diretto fra le persone e puoi essere attivo sul territorio, dire la tua, partecipare, avere diritti e doveri. Qui c’è un senso di unione che da altre parti non si trova».
Marco Rossi ha chiaro in mente quello che vorrebbe fare di sé: tenere un piede qua e uno nel mondo. Come del resto ha fatto da quando, dopo il liceo scientifico ad Agordo, è andato all’Università a Trento dove si è specializzato nell’elaborazione di modelli matematici che consentono di spiegare fenomeni fisici e meccanici.
«Dopo la laurea in ingegneria civile e il dottorato», spiega, «ora ho partecipato a un bando per un assegno di ricerca a Trieste. Mi piacerebbe poter continuare a fare il ricercatore perché questo muovermi tra il noto e l’ignoto mi affascina molto e, se la cosa va in porto, spero di poterlo fare da qua, da questa “stua” con una buona connessione a internet. Sono molto contento di essere andato a Trento, di aver stretto rapporti fecondi di amicizia, studio, dibattito e di essermi reso più consapevole delle qualità che ci sono qui in Agordino. Ora vorrei seguire le orme del mio mentore, Daniele Veber dell’Università di Trento, che continua a fare ricerca, ha uno studio di ingegneria per conto suo e fa il contadino».
In attesa di individuare i propri “campi” da dissodare, Marco crede che, per poter avere raccolti in futuro, la sua terra debba oggi coltivare innanzitutto persone. «La comunità è un valore, ma vedo pochi investimenti nell’ambito socio-culturale», spiega, «e il rischio è che si perda il senso del territorio e dei rapporti sociali che lo caratterizzano. Chi viene da fuori per abitare qui, li apprezza molto; noi sembriamo pensare di più alle strade e alle grandi opere. Gli investimenti in questi ultimi ambiti sono più visibili e danno subito la misura di un impegno da parte di amministratori e politici; quelli socio-culturali richiedono un lavoro di lungo periodo per far sì che la gente sia contenta di rimanere in posti che non siano dormitori. Serve costruire una generazione».
Anche l’Agordino e la montagna bellunese sono in qualche modo, come quelli che Marco studia, sistemi discontinui non solo da un punto di vista morfologico, ma, in virtù dello spopolamento, sempre più anche a livello sociale. Lui, però, per questi non ha modelli matematici da applicare, ma solo idee costruttive da mettere sul piatto di una discussione su cosa serva per affrontare la questione demografica, al di là di strumenti che continuano a rivelarsi fallaci. Idee che partono dalla consapevolezza delle proprie radici, ma anche da quell’esercizio al pensiero iniziato con lo studio della storia e della filosofia al liceo e proseguito nelle notti insonni con i compagni universitari a parlare di fisica, politica, economia e bitcoin. «Ho sempre sentito come obbligo morale far parte attiva della società di cui sono membro», dice Marco, «sono nella Pro loco, dirigo il coro parrocchiale e sono organista della parrocchia. Credo che il tessuto sociale di un paese sia molto importante, ma lo scopri, te ne rendi conto, lo percepisci, solo quando sei dentro».
Marco canta anche con il glorioso Coro della Sat di Trento. Ogni settimana parte da San Tomaso e va a Trento a fare le prove. È a un coro di montagna che, secondo lui, le comunità locali dovrebbero assomigliare. «Tu metti il tuo», spiega, «che si mescola e si fonde con quello degli altri. Nulla emerge in particolare, se non il risultato finale. Certo, qualche solista ogni tanto può servire, ma, come in montagna, per raggiungere gli obiettivi occorre mettere assieme le forze».
Oltre al significato simbolico, della coralità di montagna, Marco apprezza anche l’opera di riproposizione della cultura e della storia montana e i loro aspetti troppo spesso considerati minori. «Attorno ai diciotto anni», racconta, «ho iniziato a interrogarmi sul perché non ci fosse molto sulla storia di San Tomaso. È una storia effettivamente marginale, come sembra suggerire la sua assenza (a parte la signoria degli Avoscano) nel Tamis, o semplicemente non è mai stata valorizzata? Da qui ho iniziato a compiere delle ricerche nell’archivio parrocchiale, a ricostruire gli alberi genealogici dopo aver ascoltato i nonni parlare di questa e di quell’altra parentela. Mi piace ascoltare gli anziani, tenere a mente e poi andare ad approfondire. Da Loris Serafini, che ha riordinato l’archivio, ho imparato che i dettagli sono molto importanti e che è necessario tenere assieme storia orale e storia archivistica. Mi capita ogni tanto di fare da guida a qualche villeggiante e penso sarebbe importante trovare il modo di avvicinare i ragazzi alla storia locale».
Se so da dove vengo, insomma, forse sono in grado di capire dove andare e magari di ipotizzare qualche direzione pure per il mio territorio. Nella testa di Marco Rossi il gusto di esplorare e capire il passato è un tutt’uno con il desiderio palpabile che la sua terra abbia un futuro. «Il mondo sta andando in una direzione, quella della ricerca legata all’intelligenza artificiale che sostituirà l’uomo in vari lavori. Per questo occorrerà puntare su professioni che le macchine non sanno svolgere, incentrate sulla creatività e sulla programmazione. Fra qualche anno conoscere il coding (il linguaggio di programmazione) sarà importante come sapere leggere e scrivere e, per un quindicenne, avere questa competenza vorrà dire avere punti in più. Credo, inoltre, che chi dovrà avere la mente libera per creare e programmare, possa trovare qui, in questa terra così a contatto con la natura, l’habitat ideale. Per venire qui, però, servono stimoli. Più volte mi è capitato di pensare che in Agordino potrebbe sorgere una silicon valley, un grande polo tecnologico che sfrutti gli edifici disabitati per ospitare start-up per nomadi digitali che poi potrebbero diventare anche stanziali».
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