Mario Beccia ospite domani a Sospirolo. «Moser mi accusò di... tradimento»
«Vivo a Crocetta del Montello, mi allenavo spesso nel Bellunese»
L’INTERVISTA
Ilario Tancon
Mario Beccia ospite d’onore domani a Sospirolo. Alla Serata Rosa in piazza Segato, insieme a Dino Zandegù, ci sarà uno dei corridori più importanti, ancorché non valorizzato come meritava, del ciclismo italiano a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Classe 1955, pugliese trapiantato a Crocetta del Montello a sei anni, Beccia ha pedalato tra i professionisti dal 1977 al 1988, riuscendo, tra le altre cose, a tagliare quattro volte per primo un traguardo di tappa al Giro d’Italia, a vincere la Freccia Vallone del 1980 e a conquistare il terzo posto in una memorabile (e ricca di polemiche) Milano – Sanremo nel 1986, alle spalle dei fuoriclasse Kelly e Lemond.
Al Giro d’Italia, lo scalatore trevigiano (56 chilogrammi il peso forma) è stato protagonista fin da subito, vale a dire fin dal 1977, l’anno del debutto tra i professionisti. Alfiere della Sanson capitanata da Moser, Beccia in quella corsa rosa seppe imporsi nella quinta tappa, la Pescara – Montelupo di Spoleto, e seppe vincere la maglia bianca di miglior giovane. Fu grande, quell’anno, sulle strade bellunesi.
Secondo nella Conegliano – Cortina Col Druscié del 7 giugno, alle spalle del ligure Giuseppe Perletto, giusto?
«Proprio così. Quel giorno si correva la Conegliano – Cortina, 220 chilometri che prevedevano le ascese a Rolle, Pordoi e Falzarego prima della salita finale. Moser, il mio capitano, era maglia rosa. Quando nel finale Perletto attaccò, io Claudio Bortolotto (altro atleta trevigiano di gran valore in salita, ndr) rimanemmo con Francesco. Quando poi partì Michel Pollentier, io gli andai dietro perché eravamo dentro gli ultimi due chilometri e i giudici erano implacabili: non avrei potuto aiutare (leggi spingere, ndr) Moser e dunque mi misi in scia del belga per poi batterlo in volata. Arrivai secondo e Pollentier prese la maglia. Francesco interpretò la mia azione come un tradimento. Non era un tradimento ma tant’è… Lo “sceriffo”, del resto, interpretava le cose a modo suo. Aveva un carattere per nulla facile».
Un altro secondo posto sulle Dolomiti bellunesi fu quello della Selva di Valgardena – Arabba, al Giro del 1983. E pure in quell’occasione ci fu qualche scintilla.
«Avevo vinto il giorno prima la Vicenza – Selva di Val Gardena. Pensavo di poter vincere anche ad Arabba, ma mi scappò Alessandro Paganessi, poi vincitore. Arrivai secondo, a 2’ dal bergamasco. Le scintille furono tra me Visentini: Roberto in quella tappa, che era la terzultima, si giocava il Giro con Saronni e mi accusò di aver attaccato troppo tardi. Gli risposi che io correvo per la Malvor e non per la Inoxpran e che la maglia rosa era un affare tra lui e Giuseppe, io ero ormai fuori dai giochi per la vittoria finale. Perché avrei dovuto io mettere in difficoltà Saronni? Che ci pensasse lui».
Quel Giro lei lo concluse al quarto posto.
«Fu il mio miglior piazzamento alla corsa rosa. Difficile, per uno scalatore leggero come me, fare meglio in quei Giri nei quali i chilometri a cronometro erano oltre centocinquanta. Altro che i Giri di adesso, pieni zeppi di salite e con pochissimi chilometri contro il tempo».
Si allenasse spesso sulle strade bellunesi?
«Parecchio, senza dubbio. Spessissimo sul Croce d’Aune e sul San Boldo. A volte, negli allenamenti lunghi, salivo in Agordino per fare il Valles e poi rientrare a casa dal Rolle. Ma le dirò che la mia carriera ciclistica è iniziata proprio in provincia di Belluno».
Davvero?
«Da piccolo avevo giocato a calcio e poi praticato l’atletica. A diciotto anni scoprii la bicicletta grazie agli amici. Il mio primo vero giro in bici fu qualcosa di drammatico e straordinario allo stesso tempo. Mi dissero di uscire per fare una sessantina di chilometri. Andammo verso Vittorio Veneto ma poi, invece di tornare verso Crocetta, salimmo sul Fadalto e al lago di Santa Croce. Volevo tornare indietro, ma neanche sapevo dov’ero e fui obbligato a seguirli. Pedalammo in direzione Belluno, Feltre e Pedavena. Bevemmo una bella birra, birra che quando fummo a Pederobba… fece il suo effetto. Mi svuotai completamente e feci una fatica bestiale ad arrivare a casa. Alla fine vennero fuori 120 chilometri. Fatti senza allenamento, con una sella di plastica e senza i pantaloncini da corsa. Giurai che non sarei mai più andato con loro. Ma non fu così».
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