Mediterraneo, mare di montanari

Le mille storie dei piccoli eroi italiani ne «La Leggenda dei monti naviganti»
I l libro, «La leggenda dei monti naviganti», andrebbe adottato da tutte le scuole medie della nostra penisola come libro di testo. Non importa la materia: certamente lingua italiana, geografia, ma soprattutto educazione dell’anima in senso proprio. L’autore è il giornalista Paolo Rumiz, inviato ed editorialista de “La Repubblica” e de “Il Piccolo” di Trieste, autore di numerosi libri che sono, in quanto libri di suoi viaggi, tutti autobiografici. Rumiz ha percorso le Alpi dal «Grande Inizio», il monte delle Linci-Risnjak in Croazia al Monviso e tutti gli Appennini sino a Capo Sud in una vecchia Topolino. Ottomila km non in cresta, perché non era possibile, ma l’idea era quella. Questo libro si legge tutto di un fiato, come un giallo, e si viene presi dalla frenesia di sapere che cosa succede dopo, come se fossimo assetati di speranza: lo siamo e Rumiz ce la restituisce. Il libro è stato scritto nella solitudine delle pendici del monte Pore, al Fedare, vicino al Passo Giau. Il titolo viene spiegato in prima pagina, perché il Mediterraneo è in realtà un mare “di montanari”, uno spazio di pastori diventati naviganti e i monti dell’Italia è come se navigassero sul mare che li circonda: non fosse per la robusta cerniera delle Alpi che li trattiene, chissà dove saremmo già finiti. Solo un abitante di Trieste, città in cui puoi avere i piedi in acqua e nello stesso momento vedere le Dolomiti nevose, un uomo che va per terra e per acqua, poteva intuire questo.


Perché l’ha scritto?
«Per milioni di motivi. Intanto perchè il viaggio è per me la prova che esisto. Viaggio, dunque sono. In primavera, come tutti gli uccelli, provo un’inquietudine migratoria. Viaggio con un sacco e un taccuino. Ho un giornale che mi consente di farlo: mi reputo il giornalista più fortunato d’Italia e d’Europa».


Quando scrive?
«Appartengo a un mestiere di letteratura veloce, però è anche vero che le cose veramente mie sono nate quando mi sono fermato, quando sono andato piano. Il viaggio è un esercizio di lentezza che non è solo un lusso delle ferie, ma uno strumento di lavoro. Il viaggio è sempre la rottura di luoghi comuni: mi asfissiano con le radici occidentali della cristianità e io vado ad oriente. Per rispondere alla domanda, scrivo continuamente perchè l’andatura stessa è racconto».


Lei parla di essere rimasto sorpreso.
«E’ la scoperta dell’avventura sotto il naso. Ho spesso provato l’angoscia di un territorio sconosciuto: mi hanno più intimidito certi anfratti dell’Appennino che le gole di Kabul. Quest’ultimo libro in particolare nasce dal bisogno di dare voce a piccoli eroi sconosciuti di cui non si parla mai. E’ diventato il sismografo di una solitudine umana, di una provincia abbandonata dallo stato, dai giornali, dal potere. Non dai preti. Ho voluto parlare delle anime belle del paese».


Un inviato fa questo...
«Nel 2002 ho viaggiato su tutte le linee ferroviarie italiane di seconda classe, testimone di uno sfascio aziendale impensabile, in una rete indegna di un paese civile, ma scoprendo una moltitune di eroi che mi ha riempito l’anima».


Come prepara i viaggi?
«Uso una preparazione morbosa che ha a che fare con l’erotismo. Una fase fondamentale, questa, che può sovvertire lo schema che ti sei costruito. Si crea una dimensione virtuale e la preparazione del viaggio rischia già di essere da sola soddisfacente, una trappola terribile. Si tratta della fase più difficile. Hai lavorato fino adesso ma può non servire a niente: somiglia alla fecondazione attraverso gli alveoli della tua pelle, della sensibilità. Credevo che i viaggi li facessi io, ma è il viaggio che fa se stesso e fa me».


Quanto tempo ha impiegato a scriverlo?

«Cinque mesi». Scrive nella pagina della Fiera del libro di Torino: “Il sogno che ritorna dal blu oltremare, oltre il secolo infame”. Il secolo è quello che abbiamo appena attraversato: perché infame? «E’ il secolo dei totalitarismi, dello smantellamento dell’invisibile, del massacro della natura».


In che stagione l’ha compiuto questo indimenticabile viaggio in Italia?
«Da fine giugno ai primi di agosto, da fine primavera all’inizio dell’estate».


Che cos’è il viaggio per lei? Conosce la Patagonia?
«Il viaggio è la scoperta che nulla è tuo. Io sono nato da emigranti friulani, mio nonno è partito da solo a otto anni per l’Argentina, ha costruito il primo grattacielo di Buenos Aires, salvo morire a 44 anni perchè la banca cui aveva affidato tutto il suo denaro è fallita. Perciò conosco l’Argentina e la Patagonia. Se viaggia, l’uomo muore in pace col mondo, impara che la terra non è sua. Nella morte non è l’anima che se ne va dal corpo, ma è il corpo che se ne va e la rende leggera. Ci sono uomini che accumulano e quelli che si liberano delle cose, quando hanno capito. Tiziano Terzani ha scoperto alla fine che il suo mondo erano la statuetta di Milarepa e Orsigna. Bisogna buttare via il superfluo sennò la mongolfiera non si può alzare, né volare».

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