Merli: «Valuteremo l’impatto del disastro su luoghi e persone»

LONGARONE. Come le comunità si sono ricostruite dopo essere state spezzate? Come è avvenuta e sta ancora avvenendo la “ricomposizione identitaria”? Quali sono le conseguenze di un disastro di enorme...

LONGARONE. Come le comunità si sono ricostruite dopo essere state spezzate? Come è avvenuta e sta ancora avvenendo la “ricomposizione identitaria”? Quali sono le conseguenze di un disastro di enorme portata, come quello del Vajont, nel lungo periodo?

Sono solo alcune delle domande a cui vuol dare risposta il dipartimento di Antropologia dell’Università di Durham, che non è solo uno dei più grandi dal punto di vista del numero di ricercatori, ma anche uno dei più prestigiosi del Regno Unito per la sua completezza. Include 40 accademici stabili, più 30 ricercatori a livello post-dottorale. Il dipartimento copre specializzazioni regionali e tematiche amplissime.

La dottoressa Merli, alla guida della ricerca sul Vajont, è stata consulente per la Federazione internazionale della Croce Rossa ed è tra gli autori principali della pubblicazione “World disasters report 2014: focus on culture and risk”. È dunque specializzata nell’antropologia dei disastri.

Come è nata l’idea di condurre uno studio proprio sul Vajont?

«Il progetto sul Vajont è partito da un mio interesse personale sul disastro, sviluppato fin dai tempi dell’orazione civile di Paolini, che si unisce alla mia esperienza diretta di ricerca nel campo dell’antropologia dei disastri. È dal 2004 che conduco studi in Thailandia meridionale, dove mi trovavo per la mia ricerca di dottorato su temi di antropologia medica, quando lo tsunami si abbatté sulle coste. Alcuni dei villaggi di pescatori nei quali facevo ricerca furono colpiti, fortunatamente, con poche vittime, ma con la distruzione di abitazioni e imbarcazioni. Più a nord, devastazione e numero delle vittime furono enormi, così come in Indonesia, India e Sri Lanka. Da quel momento ho sviluppato una linea di ricerca parallela in direzione dell’analisi dei processi socio-culturali identitari delle comunità colpite da disastri sia naturali (come nel caso dello tsunami) che tecnogenici e antropogenici (cioè causati dall’uomo, come nel caso della diga del Vajont). Ho sempre ritenuto che fosse indispensabile svolgere una ricerca multidisciplinare che si focalizzasse sulle dinamiche di ricostruzione, ricomposizione identitaria e relazione con il territorio su un arco temporale lungo, e non solo nell’immediatezza. Nella mia ricerca sui disastri sottolineo l’importanza di un’analisi di lungo periodo per permettere una reale comprensione dei processi sociali, economici, culturali, che hanno coinvolto vittime, superstiti e sopravvissuti. Ho scelto il Vajont, sul quale ho letto molte pubblicazioni, perché riconosco nella tragedia delle comunità montane e della valle del Piave processi simili a quelli che hanno investito le comunità di pescatori in Thailandia, con l’importante differenza delle responsabilità dirette da parte di soggetti umani nel provocare il disastro del Vajont. Entrambe gli eventi, inoltre, sono tsunami».

Cosa pensa potrà emergere da questa analisi che prende in considerazione un lungo arco temporale?

«È ancora presto per dirlo. L’obiettivo consiste nel tentativo di completare il quadro. Non certo con la pretesa che diventi esaustivo (gli studi non finiscono mai), ma tentando di dare informazioni in più. Pensiamo solo al tema del trauma dei soccorritori: nel caso del Vajont, tanti giovani, militari di leva e non solo, si sono trovati di fronte a una tragedia oltre l’inimmaginabile. Oltre al trauma primario c’è quello secondario. Non a caso stiamo prendendo contatti con le associazioni locali, in provincia di Belluno, e con le istituzioni. Vogliamo condurre un’analisi il più possibile completa. E abbiamo trovato, finora, una buona accoglienza. C’è poi l’aspetto del processo di identificazione forense: nel 1963 non era avanzata come quella attuale e c’è stata tanta difficoltà nel riconoscimento delle vittime. Su questo non ci sono molte pubblicazioni e andremo a condurre degli studi. L’impatto sui superstiti fu non indifferente».

Avrà di sicuro saputo che dal territorio bellunese è partita la richiesta di inserire l’archivio del Vajont nel registro delle Memorie del mondo dell’Unesco...

«Sì, l’ho saputo, e ritengo che questa candidatura sia molto importante. Un progetto stupendo. La memoria è un bene intangibile il cui valore non è paragonabile ad altri. Detto questo, l’obiettivo del nostro gruppo di lavoro sarà “disseminare” la ricerca sul territorio, facendola conoscere e coinvolgendo il più possibile le realtà locali».(m.r.)

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