Michele da Macerata: l’Agordino è il posto giusto per metter su famiglia

Ha trentadue anni, ha trovato l’amore a Santa Fosca. «Vedere gli scolari in bici apre il cuore, ma trovar casa è un problema»

Gianni Santomaso

SANTA FOSCA. Gli manca l’orto, e un po’ gli manda anche la casa di campagna con i cordoli del vialetto che aveva fatto lui, ma quando vede le bambine e i bambini che da soli vanno alle elementari di Santa Fosca in bicicletta, ha la conferma che qui è «il posto giusto dove far famiglia». Michele Pirro, 32 anni, a Selva di Cadore è arrivato nel 2019 da Montecosaro, un paese di poco più di settemila abitanti della provincia di Macerata. Ci aveva messo due anni a recidere ciò che lo tratteneva dal partire e a liberarsi da qualcosa che fatica a spiegare, ma che gli dava la sensazione di essere frenato. Poi, però, ha pigiato l’acceleratore e pochi giorni fa, insieme a Isabella, una ragazza del posto che dal 2014 gestisce a Santa Fosca la Baita Al Sole, ha comprato casa a Toffol.

«Abbiamo fatto tutte le nostre valutazioni e i nostri ragionamenti – spiega come dovesse giustificarsi della velocità con cui la realtà a volte prende forma – e abbiamo deciso così, dopo quasi due anni di convivenza. È la casa del nonno di Isabella e a me è piaciuto molto quando lei mi ha detto che voleva la sentissi anche mia». Michele, tuttavia, non sente sua solo la casa, sente suo il paese e il territorio in cui si è inserito e integrato. «Vado giù ogni tanto – dice – sto al massimo una settimana, poi ho voglia di tornare su. Anche gli amici di una vita che salgono a trovarmi me lo dicono: “Hai fatto la scelta giusta”. E io penso che la montagna mi abbia chiamato».

Quarto di cinque fratelli maschi, Michele ha coltivato la passione della montagna sin da piccolo. «Uno dei miei fratelli – racconta – era nel Cai e a dieci anni andavo con lui alle escursioni. Dopo ho fatto trekking con gli amici, oppure da solo col cane sui monti Sibillini». Ma tra la montagna che chiama per farsi esplorare e quella che chiama per farsi abitare passa tanta differenza. La seconda, però, doveva attendere ancora. «Ho frequentato l’alberghiero – dice Michele – a 14 anni ho fatto il pizzaiolo e poi le stagioni in ristoranti e pub. Ho quindi lavorato con mio padre che era idraulico ed elettricista e in seguito con mio fratello che ha rilevato la ditta».

Per Michele, però, non c’era solo il lavoro, quello stipendiato e quello per passione sulla terra di Civitanova Alta che circonda la casa di famiglia in cui viveva da solo da quando aveva 24 anni. «Giù – dice – facevo parte di un gruppo di giocolieri, la Zandella, che allietava in primis la festa a Montecassiano, a mezz’ora da casa mia, con spettacoli di vario tipo, dai trampoli allo sputafuoco. Siamo partiti in una trentina di ragazzi e ora, dopo 14 edizioni, sono 150. Era ed è molto bello, perché rappresenta un’occasione di aggregazione per i giovani con un continuo ricambio generazionale. Cosa che non accade alla festa della birra, dove ci sono sempre gli stessi e si pensa solo agli interessi della festa e non a quelli dei ragazzi».

Questo spirito Michele se l’è messo in valigia quel giorno che ha deciso che era ora di rispondere alla chiama dell’altra montagna. «Stavo bene in famiglia e con gli amici – racconta – ma erano anni che mi sentivo frenato. Volevo andare via, ma mi tratteneva un po’ la casa in campagna, un po’ il fatto che avrei dovuto lasciare la cura del frutteto sulla schiena di mio padre, un po’ il dispiacere di costringere mio fratello a cercarsi un operaio». Ma, anche su spinta del fratello stesso, Michele decide infine di partire.

Scarta gli Appennini e sceglie le Alpi, manda curriculum nei rifugi di alta montagna, ma non riceve proposte di assunzione. Alla fine vede che all’hotel Negritella di Selva di Cadore cercano un manutentore. Ci lavorerà solo due stagioni, ma ormai è fatta. Perché il “Terùn”, come lo chiamano simpaticamente i suoi amici di Selva, in poco tempo ha già messo radici e le ha innaffiate con il suo modo di fare e di essere. «Quando mi rivolgono la parola, io poi parto e mi faccio dentro – spiega Michele – una sera eravamo al bar e ci siamo messi a parlare di come si fa su il maiale e di come fare la legna, e salta fuori che Emanuele Lorenzini, dell’omonima termoidraulica, cercava un dipendente. Da allora lavoro con lui, assunto a tempo indeterminato».

Trovato il lavoro, manca la casa e qui l’impresa si fa più dura. Michele è solo l’ultima di una lunga lista di persone che vogliono rimanere o trasferirsi in Agordino e non trovano un’abitazione, se non i mini-appartamenti che i costruttori-immobiliaristi hanno ricavato per i turisti che arrivano per i fine-settimana. «Emanuele è stato gentilissimo – ricorda Michele – mi ha ospitato per due settimane a casa sua, poi ho trovato per un mese un appartamento a Colle Santa Lucia e infine dei proprietari di una seconda casa a Marin me l’hanno affittata. Qui il problema non è il lavoro, ma la possibilità di abitare. Posso capire le paure che la gente ha nell’affittare a sconosciuti, ma credo anche ci siano persone che, nel tendere alla cura del proprio giardino, finiscono per penalizzare sé stesse e la comunità. Poi ci si lamenta per lo spopolamento».

Quello che deve dire, Michele lo dice. D’altronde, oggi, da residente, ritiene di averne pieno titolo. Tuttavia è consapevole del fatto che quando arrivi in un posto nuovo, devi farlo in punta dei piedi. «Qualcuno che viene da fuori ritiene di essere trattato male – spiega – ma credo dipenda molto da come ti poni: tu che entri nella nuova comunità devi metterti nei panni di chi vuoi che ti accolga e che magari ha un modo di fare diverso dal tuo: serve umiltà e gentilezza. Quando mio fratello è salito a trovarmi ha rischiato di litigare, perché è andato subito all’attacco e a quel punto gli altri sono andati in difesa. Ma se ti approcci in una certa maniera scopri che qui non sono freddi. Io mi trovo bene e ho stretto tante amicizie. A volte Isabella mi dice che parlo troppo e che condivido anche le cose personali, ma io, pur non essendo molto praticante, sono cresciuto con un’educazione cattolica e ho fiducia nel prossimo. Alla gente dico: se dovete parlare degli altri fatelo, ma non parlatene male». Michele conosce ormai tutti e molti se non tutti conoscono lui. Ad aiutarlo nell’integrazione è stato sicuramente il lavoro, ma non solo.

«Fare l’idraulico – dice – mi ha portato a conoscere il paese e la sua gente, grazie anche al mio capo che ogni volta veniva con me e mi presentava. Inoltre ho condiviso la mia passione per l’arrampicata con una decina di amici e nei fine settimana andiamo spesso a fare quattro tiri. Io ero quello che spingeva e oggi, invece, con la scusa degli impegni legati alla casa nuova, sto tirando un po’ indietro». A suo giudizio lo sport può rappresentare un significativo momento per i giovani per stare in compagnia e ovviare al bar. «La birra può essere il momento finale, ma non il fine dello stare assieme – sottolinea Michele - se mancano le occasioni per l’aggregazione, però, è più difficile far fronte al problema dell’alcolismo».

Dietro i suoi occhiali Michele vede le criticità, ma anche i tanti pregi della vita a Selva. «Fuori stagione quando non c’è nessuno si sta da dio – dice – a me non piace il caos. Si può far legna per pulire i boschi e per tramandare certi saperi. E poi c’è la libertà: quella di lasciare le chiavi sulla porta, cosa che mia madre giù non fa più da vent’anni, e quella di poter crescere dei figli senza assillarli con le tue paure. C’è una comunità che vigila».

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