Natale agli inizi del '900

Michelangelo Corazza
Michelangelo Corazza

L’approssimarsi del Natale evoca personaggi e parentesi lontane. Tutto si ridesta nell’animo, come ispirato da arcane potenze. Sembra ieri, ma il tempo è trascorso inesorabile, portando ancora l’eco di quei giorni, dove la vita scorreva a dimensione d’uomo lasciando le tracce incancellabili di un mondo lontano dal consumismo, capace di sminuire il valore religioso della Santa Notte. C’era un signore che faceva il calzolaio. Mentre usava ingegnosamente la lesina mi raccontava del Natale di un tempo. E lo vedevo come un racconto che portava alla memoria Edmondo De Amicis. Il desco era ingombro di utensili, i clienti andavano e venivano, dalla finestra che dava sulla piazza si notava il clima natalizio. Le vetrine erano addobbate sobriamente e la gente nella sua fretta sembrava dire che nell’aria “ci fosse qualcosa di nuovo”. Tullio, in vena di ricordi, raccontava di un passato remoto, di quando era bambino: il Natale povero agli inizi del secolo scorso. Così vedevo Forno tutto diverso: le lucerne a petrolio che facevano filtrare dalle finestre la fioca luce; sentivo dalle stalle i belati dell’ultimo agnello nato. Era sera. Già a mezzogiorno gli uomini avevano riposto le “luoze” nei fienili e nel pomeriggio qualche bicchiere di vino aveva riscaldato l’animo e le mebra intirizzite dal freddo della stagione. La cena frugale e poi, nell’attesa della messa di mezzanotte, il trovarsi assieme nella casa vicina. Sul “fornel” ed attorno al “fogher” correvano le frasi, le battute scherzose, le aspirazioni, i sogni. Fuori, nella strada ghiacciata, i bambini vocianti con le “lezuole”, il cui rumore assomigliava ad un lontano galoppar di cavalli, inventavano sfide, che non di rado finivano sotto il primo muricciolo, a causa l’oscurità della notte.

Quanto era buono e gradito il vino caldo bevuto in allegria: era una rara occasione per offrirlo agli ospiti che a loro volta avevano portato delle castagne da mettere sul fuoco. Finalmente nella casa un profumo diverso, anche la patata dava una certa soddisfazione e faceva dimenticare la terra avara e poco ubertosa. Fuori intanto cadevano sparsi i primi fiocchi di neve. La campana spandeva nell’aria i suoi rintocchi di festa ed allora via... verso la chiesa dove i rinomati cantori paesani con largo anticipo avevano occupato il posto sulla cantoria. C’era Zuane dai baffi che gli davano l’imponenza di un Checco Beppe paesano e non era invece che un povero chiodaiolo. C’era Bepo, votato ormai al mestiere di Zuane, c’erano Titta, Bortol, Jacom, Anzol, tutti validi operai delle “fusinele”; c’era Nano, l’emigrante che in una citta straniera aveva aperto una gelateria. I ferri sotto le scarpe, a contatto del terreno gelato e acciottolato, provocavano qualche scintilla e facevano un concerto monotono ed uguale passo dopo passo.

Le donne, avvolte nella sciarpa della festa, pensavano alle compere del pomeriggio: un po’ di farina, qualche mandarino dal fruttivendolo, la lana per fare guanti e sciarpe. Spese sobrie, parsimoniose; solamente Chele si era lasciata andare ad un invitante mandorlato, comperato nella pasticceria del paese. Infatti i suoi affari le erano andati bene negli ultimi tempi, dato che entrambe le capre avevano prolificato ed una facoltosa famiglia dell’alta valle aveva acquistato un capretto per la festa, corrispondendo, oltre che con il denaro, anche con un buon sacchetto di fave. La chiesa era ormai zeppa; anche Marco, il solito ritardatario, aveva fatto ingresso non prima di aver sputato l’ultimo residuo di toscano masticato e, facendosi strada fra la ressa, con fatica e tra lo sguardo poco compiaciuto dei presenti, si era guadagnato un posto vicino alla balaustra. La funzione religiosa fu lunga ma seguita: qualche bambino aveva ormai reclinato il capo ed il prete nella “predica” aveva usato una padronanza di vocaboli e di linguaggio non comune: l’atmosfera del Natale era riuscita a riportargli alla mente insegnamenti appresi in lunghi anni nel seminario. Tutti aveva cantato quella Notte di Natale. Persino Bortol, che aveva poca dimestichezza con il latino, cantava seguendo i cantori, alternando le parole, tanto che la moglie Nina gli disse: “Tasi Bortol, che tes stonà come na canpana”.

Era l’una di notte quando la gente usciva di chiesa; già si pensava alla polenta del pranzo di mezzogiorno, che una volta tanto avrebbe saziato la famiglia. Le lucerne tremolavano illuminando fiocamente la strada buia. Si respirava un’aria di amicizia e di volersi bene. Le scarpe non sferragliavano più, dato che la neve era alta ormai una spanna. Nei cuori echeggiavano consolatrici le parole “Gloria a Dio nell’alto dei Cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Tullio, il calzolaio di montagna, finiva il suo racconto di quel Natale sentito, diverso, vero. Ed io bambino rimanevo muto. Nella mente percorrevano scene contrastanti. Mi aveva fatto immergere in quel mondo lontano e ormai perduto. Facevo fatica a ridestarmi da quello che sembrava un sogno, vivevo una realtà remota, cancellata subito dal rombare di motociclette e di automobili. Rientrando verso casa vedevo le vetrine che esponevano pellicce di lusso, pensavo alle assurdità dei costosi regali, a feste lontane da quel Natale narratomi da Tullio. Un senso di malinconia scendeva nel mio intimo di bambino. Avevo capito, attraverso quel racconto, che un anziano mi aveva fatto comprendere ed apprezzare il vero senso del Natale. E nell’umile stalla di Betlemme, raggiunta attraverso la mia fantasia, mi pareva che Gesù Bambino sorridesse non solo a me ma a tutti gli uomini.

Michelangelo Corazza sta per compiedere 70 anni. Autore di 31 libri tra biografie, romanzi, storie di emigrazione, raccolte di proverbi e modi di dire,è stato vincitore del Premio Coni e Bancarella Sport, nel 1994, con il libro Pugni amari; terzo assoluto al premio nazionale Gaggia Gaggia di Milazzo, nel 1994. Finalista con menzione speciale nel concorso nazionale “Dino Buzzatti” a Trichiana, nel 1997, con il racconto La fusinela. Finalista al concorso nazionale Reghium Juli di Reggio Calabria, nel 1997, con il romanzo Ali tarpate. Corrispondente per anni di vari giornali locali e riviste specializzate.

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