Oltre i cancelli di Baldenich dove il carcere è realtà

Gli studenti del Negrelli-Forcellini hanno visitato l’istituto di pena di Belluno Il detenuto Ettore: «La libertà conta più di ogni altra cosa, ricordatevelo sempre»

FELTRE. Entra, veloce, altrimenti la porta non si chiude e non possiamo andare avanti. Spegni il telefono e lascialo nell’armadietto. Non perdere di vista l’insegnante. Ascolta il comandante. Segui il direttore. Tutti ricordano la prima volta che sono entrati in carcere. Loro, per fortuna, lo hanno fatto da visitatori. Per la prima volta nella storia della Casa circondariale di Belluno, una classe di seconda superiore ha varcato la prima, la seconda e pure la terza soglia dell’istituto penitenziario di Baldenich, per incontrare non soltanto i principali attori delle attività fondamentali e collaterali che vengono svolte all’interno, assieme alla direttrice Tiziana Paolini e al comandante della Polizia penitenziaria Domenico Panatta, ma anche e in via del tutto eccezionale due detenuti.

L’ospitalità della classe seconda Cat (ex geometri) dell’istituto Negrelli-Forcellini di Feltre ha segnato un precedente che non si potrà dimenticare: quelle porte e quei cancelli si possono aprire, anche da fuori. Perché là dentro ci sono persone che hanno sbagliato, ma che prima di ogni attributo restano comunque persone. Il dialogo si alterna serrato tra la direzione amministrativa e quella penitenziaria. Prima i numeri: quelli dei detenuti, in leggero sovrannumero (un centinaio rispetto alla capienza regolamentare di 89); quelli della Polizia, in sottonumero. Si parla degli ambienti più o meno facili, come le celle con le brande di ferro, i bagni con l’acqua fredda, le docce umide al piano terra. Delle attività, come la pallavolo con il Csi, lo yoga, il corso di informatica, i cicli di cineforum nella sezione transessuali, tutte a carico di volontari esterni. Dell’occupazione gestita dalle cooperative “Sviluppo&Lavoro” e “Lavoro associato” assieme alla manutenzione dello stabile, che dalla sua costruzione risalente al 1933 non riceveva una rinfrescata alle pareti esterne da diverso tempo. Se ne stanno occupando proprio in questi giorni alcuni ospiti della struttura.

Dietro al gruppo entrano anche i due ospiti che avranno la parola per ultimi, Davide ed Ettore. «Non ho dormito tutta la notte per pensare a cosa dirvi», esclama Davide, visibilmente emozionato, «non ho avuto esperienze in altre carceri, ma per quel che mi riguarda questo si potrebbe definire a conduzione familiare, visto come funzionano le cose. Io ed Ettore siamo finiti qui dentro mentre conducevamo una vita normale, ci svegliavamo la mattina per andare al lavoro e avevamo una famiglia. Non è stato facile vedere i miei genitori entrare qui per la prima volta. Per me l’ingresso in carcere è stato traumatico». Per sua fortuna ora il percorso si è orientato sul regime di semilibertà. Ettore passa ogni giorno in palestra, lavora in cucina, scrive quattro lettere e legge un libro a settimana. «Mi serve per svuotare la mente, perché non è facile stare qui. Siamo sconosciuti costretti a vivere anche in 5 in una cella e l’educazione, il trascorso personale e la provenienza non rendono sempre facile la convivenza».

Ma una cosa prevale su tutte: «Alla fine è la libertà la cosa più importante, quella che manca di più. Senza di quella non si va da nessuna parte. Ricordatevelo quando starete per combinare qualche marachella: potreste essere miei figli, non voglio vedere nessuno di voi qua dentro». Esprimere le sensazioni per i ragazzi è difficile. È l’insegnante Simonetta Turrin a guidarli nelle domande. Ma alla fine un’emozione è unica: il senso di claustrofobia e la voglia di uscire in fretta. Di riassaporare la libertà. Loro che possono.

Francesca Valente

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