«Ora le criticità sono Pramper e Moiazza»
ZOLDO. «Un disastro che soltanto per il concorso di circostanze fortunate non ha provocato vittime umane». Queste parole, tratte dal volume “Novembre 1966. L’alluvione” (reportage fotografico di Bepi Zanfron, testi e ricerche di Sergio Sommacal), illustrano bene ciò a cui si trovano di fronte gli abitanti della val di Zoldo e i primi soccorritori. A Zoldo l’alluvione non fece vittime, ma i danni furono molto ingenti e ci volle tanto tempo per porvi rimedio.
«Spesso l’evento del 4 novembre 1966 viene identificato come “alluvione di Firenze”. Fu, in realtà, l’alluvione d’Italia», commentano Camillo De Pellegrin, sindaco di Val di Zoldo, e il consigliere Paolo Zanettini, che si sta occupando dell’organizzazione di un convegno, in calendario sabato prossimo. «Il titolo è “50 anni dalla Brentana Granda del ’66. Un dramma che potrebbe ripetersi”», spiega. «Titolo significativo, che spiega il perché dell’evento: bisogna tenere vivo il ricordo, perché quel che è accaduto non si verifichi ancora».
A seguito dell’alluvione la val di Zoldo fu interessata da numerosi interventi. Ma c’è ancora da fare. A ripercorrere le opere portate avanti negli anni è Renzo Giacomo Scussel, già sindaco di Forno di Zoldo e dirigente Arpav, che nel 1966 aveva 13 anni e che, nei decenni successivi, seguì il tema alluvione sia per motivi personali che professionali, organizzando poi, nel 1996, gli eventi per i 30 anni dall’alluvione. «A Zoldo la questione è stata affrontata in modo integrato», precisa. «Nel 1981 il nucleo operativo di Belluno del Magistrato alle acque commissionò uno studio per la formulazione di un progetto generale molto buono. Il Comune poteva accedere a un finanziamento straordinario, in base alla legge 730/1986, che metteva a disposizione 30 miliardi per la sistemazione del torrente Maè. In quell’occasione lo Stato dette i soldi alla Regione. A fare da consulente ai Comuni fu chiamato anche il noto professor Lucio Ubertini».
«La “fortuna” è che a Zoldo venne fatto lo stralcio esecutivo di un progetto generale integrato, non a spot o in fretta», aggiunge. Finanziati nel 1986, i lavori partirono tra il 1990 e il 1991, con ulteriori risorse reperite dalla Regione (dai 30 si passò ai 38 miliardi), anche con un grosso intervento a Goima, sul Ru delle Roe.
Ma questi lavori con cosa andrebbero completati? «Nel nostro territorio ci sono ancora aspetti critici», sottolinea De Pellegrin, «rappresentati dai torrenti Pramper (che nel 1966 aveva riempito Forno di detriti) e Moiazza. Quello che bisogna fare è partire da una pulizia degli alvei. I Servizi forestali stanno lavorando, ma non c’è ancora un’adeguata attenzione sul tema. A questo si aggiunge quello dello sfruttamento idroelettrico: aver impoverito i fiumi ha contribuito alla crescita, lungo alvei e sulle sponde, della vegetazione. Non dimentichiamo poi che i piccoli rigagnoli si trasformano in fiumi quando l’acqua scende copiosa».
Per quanto riguarda il Pramper, Scussel sottolinea la necessità di tenere “sott’occhio” le sponde, per evitare erosioni ai piedi, e la parte terminale non controllata dalle briglie e che da sola è in grado di intasare il Maè. «Fondamentale poi controllare le numerose frane che mettono in pericolo la montagna, come quelle sul tratto che va al Duran o in Staulanza», prosegue, «sistemare i bacini secondari nella logica di ridurre il trasporto solido verso il collettore principale; tenere conto, nella progettazione degli interventi, che la frequenza di quelle che vengono chiamate “bombe d’acqua” è aumentata».
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