Paola da La Valle, “chéla dai scarpét”: «Mio marito Nani li indossava anche in Persia»

È una maestra nel realizzare le calzature simbolo di queste vallate: «Sono sane: con la lana e il cotone il piede respira benissimo»
Gianni Santomaso

LA VALLE AGORDINA. Il territorio dolomitico è pieno di leggende. Chissà se l’episodio famigliare che ricorda Paola Soppelsa diventerà nel tempo elemento ricorrente di una nuova serie di racconti ispirati all’abitare o meno la montagna. «Mia suocera – dice Paola – aveva intuito che le cose stavano cambiando e prima di morire ci ammonì: “Se non continuate a tagliare l’erba dei prati, quando sarò morta verrò a prendervi per i piedi”».

Finora non è successo, perché Paola, 75 anni e mezzo, con i figli, la nuora e i nipoti segue le direttive della madre del Nani Vila, al secolo Giovanni De Col, suo marito, morto troppo presto. È venuta a prendermi all’incrocio con la provinciale 347 che porta al passo Duran «perché sennò su per queste “burèle” ti perdi». «Oggi mi trovi qui – sottolinea una volta arrivati nella cucina della sua casa a Cugnago di La Valle – perché è brutto tempo, sennò sono sempre di fuori. Abbiamo segato la riva qui vicino e poi un altro pezzo. Facciamo le balle di fieno e poi viene uno da Rivamonte a prendersele».

Rivamonte è proprio di fronte. Scherzano gli abitanti dei due paesi dirimpettai: gli uni dicono agli altri che, potendo godere di una sì splendida vista, sono fortunati ad abitarci. Abitare, però, è anche tramandare e tramandare è abitare. Durante l’estate Paola non ha tanto tempo, presa com’è dalle faccende all’aria aperta, ma quando la stagione invita a rientrare, prende ancora le forme di faggio o frassino, il velluto per la tomaia, i pezzi di cotone e di lanetta per la suola, ancora il cotone per la fodera interna e per la “zéntena” e lo spago per legare le varie parti. Si arma di punteruolo e realizza “i scarpét”, una delle calzature simbolo della storia di questa vallata e non solo. «Oggi non ne faccio più tanti – dice – ne ho in opera un paio per i nipoti e per delle amiche, ma basta. Lavoro di più quando vado alle sagre o ai mercatini assieme agli altri artigiani che fanno capo all’associazione Fare Cultura Agordina di Rivamonte. Lì mi piace ancora mostrare come si fa».

Negli ultimi trent’anni Paola ha tenuto numerosi corsi in giro per l’Agordino ed è andata anche oltre i confini a insegnare un’arte che, altrimenti, rischiava di perdersi. Originaria di Cencenighe, si è “incasata” a La Valle dopo il matrimonio con Nani. «Frequentavo il chimico ad Agordo – ricorda – e lui faceva il tecnico di laboratorio. Quando lo vidi la prima volta dissi alla mia amica da Gosaldo: “Teresina, prenditelo tu quello là”». Poi, invece…

A volte succede così, la vita prende forme inaspettate, non come quelle dei scarpét indirizzate dal pezzo di legno vestito dalla tomaia. «Lui portava sempre i scarpét – dice Paola, ripensando al marito – in Persia al lavoro e a Londra in vacanza. Li portava dappertutto, tanto che lo prendevano in giro, ma a lui non interessava. Per tanti era “chél dai scarpét” e io sono diventata “chéla dai scarpét”».

Ma il rapporto così stretto tra Paola e le calzature di velluto è nato quasi per caso. «Mia mamma aveva sempre fatto scarpét – racconta – ma io, come spesso accade in famiglia, non avevo mai imparato. A mio marito li faceva sua mamma che, però, a un certo punto non riusciva più a lavorare. Un giorno, era il 1990, è arrivata una coppia di amici da Zoldo e Nani ha chiesto alla donna se gli faceva i scarpét. «Io te li faccio – ha risposto lei – ma tua moglie deve fare le suole”. E così mi sono messa. Ne ho fatte due così grosse che sembrava di stare sui trampoli. Nel frattempo la nostra amica si era ammalata e così ho deciso di completarli io. Sono andata da una donna di La Valle e in breve tempo ho imparato».

Paola va in altre stanze e torna con tre borse piene di forme («Taci che ho trovato un altro signore che me le fa»), di suole già cucite, di tomaie ricamate dalla mano della figlia Pamela. «Sono calzature che durano – dice Paola – e che si usavano dappertutto, in alcuni casi rinforzate da una suola particolare, e soprattutto sane perché con la lana e il cotone il piede respira benissimo e puoi star sicuro che non si formano calli».

Parlare di scarpét con Paola, vuol dire solo in parte soffermarsi sui 16 passaggi necessari per arrivare a terminare l’opera («Se te ne dimentichi uno, poi non sai più come fare») o sulle ore di lavoro (trenta, per un numero 42-43, secondo i calcoli delle donne di un tempo) che determinano il costo elevato del prodotto («Davanti alla richiesta di 70 mila lire dell’epoca – ricorda – quel tipo da Agordo, che aveva possibilità economiche, attese a lungo prima di mettere mano al portafoglio e mi fece sentire come una ladra»). Parlare con lei di scarpét vuol dire soprattutto parlare, legandole, della gente del passato e di quella del futuro. Si rivedono i giovani che tornavano in gruppo dalla partita di calcio con i scarpét legati al collo. «Facevano così – dice Paola – perché altrimenti, se i genitori avessero capito che li avevano usati a giocare a pallone, li avrebbero sgridati». O ancora si seguono i ragazzi toglierli dai propri e lasciarli ai piedi del ciliegio su cui poi salgono a rubare i frutti. «Quella volta – ricorda – il proprietario li beccò e sottrasse loro i scarpét senza più darglieli indietro. Nessun genitore andò a reclamare. Allora, quando i figli combinavano qualcosa non si cercavano scuse o altro e non si proteggevano. Era un modo per responsabilizzarli».

I giovani d’oggi, secondo Paola, sono molto interessati alle cose, ai saperi, alle storie di un tempo. «A loro piace vedere come si faceva una volta, le fatiche che ci si sobbarcava – sottolinea – quando facevo i corsi venivano e mi portavano oggetti vecchi che appartenevano ai loro nonni o bisnonni e a me faceva tanto piacere. Una volta sono andata all’asilo di La Valle e ho portato un paio di “dàlmede”: i bambini erano entusiasti e curiosi e volevano che gliele lasciassi lì».

Paola si augura, però, che le pratiche del passato, oltre a stimolare la curiosità, possano da un lato essere replicate e tramandate e dall’altro essere spunto per una riflessione sui comportamenti odierni. «Una volta erano molto poveri – dice – non avevano tante stoffe da usare per fare la suola dei scarpét e c’era chi metteva insieme tanti brandelli oppure chi cuciva numerosi punti per rinforzare altrimenti la suola stessa. Oggi tanta gente mi porta jeans di tutti i tipi, contando che a me possano servire e così a chi viene ai corsi dico che ho già tutto l’occorrente anche per loro. Però, ecco, quando vedo i miei corsisti giovani appoggiare la stoffa sul tavolo e mettervi sopra lo stampo non vicino ai margini per evitare sprechi, ma al centro, rimango male».

È combattuta, Paola. Certa del contributo positivo portato dal progresso che ha lasciato in un’ipotetica fotografia la donna «con tanti figli e poca terra» che raccoglieva dal prato il fieno lasciato da altri dopo aver caricato i fasci sulla schiena, entusiasta della vitalità della Pro loco e delle altre associazioni del suo paese, piena di una sensazione di libertà nel potersi muovere nello spazio in cui «mi percepisco così piccola»; questa donna minuta e decisa non riesce a celare gli occhi lucidi raccontando delle sue camminate su per i Còi sui passi di un tempo. «Vedo i meli e altri alberi da frutto che sembrano dire ai “busch de nosolèr” che ormai li hanno intrappolati: “Per favore, lasciatemi passare”».

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