Pianista nel mondo con base a Falcade, Silvia Tessari: «La città dà opportunità ma questa è casa mia»
IL PERSONAGGIO. Per averlo sempre a portata di mano, Silvia Tessari si è portata il mondo nella sua casa di Falcade. Appeso alla parete sopra il divano c’è un planisfero intagliato, appoggiato sul tavolino un mappamondo. Ha suonato il pianoforte in varie parti del globo, dagli Stati Uniti alla Corea del Sud, dalla Thailandia a tanti paesi europei. L’Italia l’ha girata tutta, da Cortina alle Isole Eolie. Alla fine, però, ritorna sempre qui dove dalla finestra vede il Mulaz e, soprattutto, a due passi dal bosco. «Il mondo selvaggio», dice, «mi ha sempre affascinato. Forse c’era già nel nome che mi hanno dato. Il bosco è un posto rigenerante in cui cogli la gran quantità di vita che c’è attorno, il verde, i fiori nascosti».
Si può partire da qui, sedersi su un palco alla Carnegie Hall di New York (una delle più importanti sale da concerto al mondo), a Seul, Tbilisi, Vienna, Mosca, Ragusa-Ibla e poi tornare, ripartire e tornare. Si può insegnare musicologia e storia della musica all’università di Padova e farlo da Falcade, vuoi perché in tempi di pandemia il lavoro agile lo consente, vuoi perché si va e si torna. Si possono concretizzare i sogni di viaggi esotici e ambire a tornare a insegnare nella piccola scuola media di Canale d’Agordo fra ragazzi che desiderano restare in valle o andarsene via. «Andare via io?», si interroga Silvia, 37 anni. «Intanto i centri della vita artistica sono sempre meno e poi, sì, in passato avevo cullato il sogno di Parigi, ma piano piano ho capito che dovunque tu vada devi trovarti l’opportunità, fare rete. Se andassi a New York non farei qualcosa di molto diverso da quello che faccio qui. Negli anni ho pensato più volte a come sarebbe stato vivere in una città, poi ho parlato con tante persone e mi sono convinta del fatto che è importantissimo e stimolante fare rete con chi condivide i tuoi stessi interessi, ma non è necessario essere in presenza. Aggiungo anche che è vero che la città, dal punto di vista musicale, continua a catturare maggiori finanziamenti, ma vedo una tendenza positiva per cui, sempre più spesso, festival di qualità si svolgono nei paesi più piccoli. Succede anche qui in Veneto».
A Falcade Silvia propone ogni anno un suo concerto estivo e briga, assieme alla Dolomiti Symphonia e alla famiglia Vannini, per organizzarne uno invernale in memoria dello scultore locale Dante Moro abbinato a un concorso. In lei, che la domenica accompagna la messa (in quinta elementare il primo Alleluja), si nota la ferrea e ferma volontà di dare il proprio contributo alla sua comunità, quella che trent’anni fa iniziava a stupirsi per una bambina che vinceva i primi concorsi. «A cinque anni», racconta, «i miei genitori mi regalarono un micro-pianoforte, 10x10, con i tasti e le note colorate. Forse intuirono che mi trovavo a mio agio e mi iscrissero al corso che l’International music institute teneva a Falcade. La mia prima maestra mi spiegò che a 17 anni avrei potuto diplomarmi al conservatorio».
E così è stato, passando per l’impegno e per le “bastonate” . «A Garés veniva in vacanza una famosa pianista», spiega, «qualcuno deve averle detto che c’era una bambina di nove anni brava a suonare il piano. È venuta a trovarmi e mi ha distrutto: mi ha detto che non pensassi di aver fatto chissà che, perché quelli che avevo vinto erano solo concorsetti. Se volevo far carriera dovevo applicarmi tanto. Al tempo ci rimasi molto male, ma devo riconoscere che è stato un momento importante perché poi mi sono messa a studiare con maggiore consapevolezza, comprendendo che è semplice essere considerata una sorta di prodigio quando non hai qualcuno con cui confrontarti».
Così bistrattati nei tempi attuali dove affiorano autodidatti in tutti i campi, nel racconto di Silvia Tessari hanno invece un ruolo di primo piano i maestri che non le hanno solo insegnato e trasmesso i differenti modi di avvicinarsi al pianoforte, ma soprattutto l’idea che non si arriva mai e che per quanto si possa essere bravi nell’interpretazione di alcune arie, occorre rimanere sempre con i piedi per terra. «Ne ho avuti tanti», spiega, «e ciascuno mi ha lasciato qualcosa. Sono figure importanti in tutti i momenti della carriera. Mi ricordo Sergio Perticaroli all’accademia Santa Cecilia di Roma. Era anziano, ma quando sedeva al pianoforte restavamo tutti a bocca aperta. Fu lui che una volta stigmatizzò il comportamento di un collega che, appena diplomato, si era fatto il biglietto da visita con scritto “pianista” . “Ma come – disse Perticaroli – è adesso che si inizia a imparare a essere pianista».
Mentre insegna e fa ricerca a Padova, Silvia Tessari continua a esercitarsi almeno due-tre ore al giorno al pianoforte. Lo fa da quasi trent’anni. «Mi sento molto russa», dice, «che vuol dire avere un suono più caldo, attento alle sfumature, non graffiante e che curi l’aspetto del cantato. Lo stile russo è molto simile al nostro veneziano. Amo il brano Petrushka di Stravinsky: 17 minuti durante i quali emergono colori diversi che imitano gli strumenti dell’orchestra. E mi fa commuovere Schubert, che parte da melodie classiche e poi prende pieghe inaspettate e offre momenti di serenità e introspezione di cui abbiamo sempre bisogno».
Ma come si fa a far arrivare queste emozioni ai giovani che appaiono più distanti dalla musica classica? «In Corea», racconta Silvia, «fra il pubblico c’erano tantissimi ragazzi sotto i 20 anni che, per volontà delle famiglie, acquisiscono la cultura occidentale. Qui da noi credo che dobbiamo riuscire a svecchiare le presentazioni, a trovare un linguaggio tale da avvicinarci ai giovani, altrimenti continuiamo a parlare solo a uno spicchio di popolazione. Quando mi è capitato di suonare nelle scuole ho visto che gli autori novecenteschi, assieme a Mozart e Beethoven, riescono a far breccia. La musica romantica è invece più concettuale e forse la sentono più lontana».
Quello che invece per Silvia i nuovi giovani hanno dentro è il senso di appartenenza al territorio e alla comunità. Lo ha colto negli anni di insegnamento di italiano, storia e geografia (è laureata in lettere antiche) alle medie di Canale d’Agordo dove prima o poi vorrebbe tornare. «A quest’età meravigliosa in cui possono esprimere se stessi in un modo incredibile», dice Silvia, «i ragazzi sono spontanei e le lezioni con loro prendono spesso pieghe inaspettate, come con Schubert. Quando ero io alunna avevo tanti compagni che dicevano di voler andare via perché qui non c’era niente. Ora, da insegnante, ho invece notato che c’è volontà di rimanere e di lavorare qui. Credo serva trovare un equilibrio: dal mio punto di vista è necessario conoscere il mondo, aprirsi al diverso, coltivare i talenti e mantenere al contempo il legame con il proprio territorio. Un territorio nel cui tessuto i giovani devono entrare rivestendo un ruolo da protagonisti. Qui sopravvive un senso di comunità, ma avverto qualche piccolo sgretolamento che va analizzato. Tanti tengono al proprio paese, ma ci sono anche coloro che di fronte a certi problemi dicono “ci penserà qualcun altro” ».
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