Piero Benetazzo, dalle Dolomiti al mondo

Il giornalista scomparso domenica visse la sua infanzia e adolescenza a Belluno: «Era il suo focolare»

BELLUNO. Il telefono squilla al Caffè Commercio di Belluno. «Dottor Benetazzo» dice la barista rivolgendosi ad un uomo seduto insieme agli amici, «c’è un signore che la cerca. Dice di chiamarsi Eugenio Scalfari». È un ricordo indelebile quello che Piero Benetazzo, a lungo inviato degli Esteri di Repubblica, lascia a Belluno. È mancato domenica.

Per il giornalista, nato a Tortona nel 1936, le Dolomiti sono state una seconda casa. Anzi, come ricorda l’amico di una vita Angelo Tanzarella, per lui Belluno fu «un focolare». «Me lo disse proprio lui» spiega Tanzarella, «in uno dei nostri ultimi incontri».

Benetazzo si trasferì a Belluno quando era ancora bambino e qui frequentò le scuole, dalle elementari fino al liceo classico. La madre era una delle maestre storiche delle Gabelli, conosciutissima in città. E anche Piero si fece presto strada. Ad esempio fondando “La perussola”, giornale satirico che alla fine degli anni ’50 fece impallidire i conformisti bellunesi.

Dopo il liceo il giovane Piero studiò a Padova ma, una volta laureato in giurisprudenza, si rese conto che la professione forense non faceva per lui. La sua passione era il giornalismo. Per l’Ansa ha raccontato la primavera di Praga firmando i suoi articoli, un privilegio raro tra i corrispondenti d’agenzia. E poi Bonn, l’Iran, la Somalia, la Serbia, il Kosovo. Eugenio Scalfari lo volle in squadra quando nel 1976 fondò Repubblica. Benetazzo divenne subito una delle firme di punta. Un lavoro intenso che gli valse, nel 1979, il Premiolino, riconoscimento giornalistico tra i più ambiti.

Ma Benetazzo non dimenticò Belluno. Di tanto in tanto tornava a trovare l’anziana madre ma puntualmente il lavoro, che riusciva a raggiungerlo anche se non esistevano ancora i cellulari, lo richiamava. Il lavoro e l’amore. Viveva insieme alla moglie Sylvia Poggioli, repoter italo-americana, a Roma. «Ma quando tornava a Belluno era una presenza assidua» ricorda Tanzarella, «soprattutto negli anni ’70. Si era formato un gruppo di amici di età diverse e si passavano le giornate a chiacchierare. Era un uomo affascinante, di grande cultura, e riusciva ad essere elegante anche sbagliando gli abbinamenti dei vestiti. Il suo stile era innato. Mi diceva che le montagne sono belle ma chiudono l’orizzonte. E che per apprezzarle ancora di più bisogna guardare anche altri scenari». (v.v.)

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