Quanto malessere nei nostri istituti: i ragazzi soffrono e noi prof con loro
La testimonianza
Dice il Ministro dell’Istruzione che possiamo tornare a scuola sicuri. Che altro potrebbe dire, del resto? Aprite le finestre spesso lo ha già usato a settembre. E comunque, “Che Dio ce la mandi buona” non sarebbe cosa per una scuola laica di Stato (e farebbe un effetto decisamente diverso).
Le classi di venti venticinque trenta, nel frattempo, sono rimaste classi di venti venticinque trenta. I treni e le corriere ce li teniamo tali e quali.
Certe proposte di uscire dalle aule e portare gli studenti a far lezione nei musei, nelle chiese, nelle sale consiliari sono state archiviate prima ancora di essere prese in considerazione. L’idea di prevenire le quarantene rafforzando i tamponi in ingresso giudicata impraticabile, o perseguita dai pochi che possono permettersela.
C’è però un catalogo molto articolato sulle combinazioni possibili, divise per livello, che il Ministero fornisce riguardo a contatti-contagi-frequenza-positività-isolamento preventivo-quarantena. Una catena che sfocia sempre in quelle tre lettere che si sono così ben incistate nel vocabolario comune con la perizia e il silenzio di un infestante: dad.
Non solo tutte le strade portano a Roma: tutte le variabili portano alla didattica a distanza. E per variabili si intende: la curva dei casi in risalita; le richieste dei presidi - 2000 su 8000 (gli altri 6.000 che penseranno?); il numero di docenti in malattia (contagiati, in quarantena, ammalati semplici e complessi); l’imponderabile uso collettivo di baite feste piazze appartamenti fatto per l’ultimo dell’anno. E molto, molto altro.
In mancanza di alternativa, sembra pacifica una sottintesa equipollenza delle lezioni: in presenza o a distanza pari sono; non è importante come. L’importante è che la baracca vada avanti, che si dia conto di non fermarsi, che le ore siano garantite. Che i ragazzi siano sistemati. Che da fuori la scuola continui. Appaia continuare.
Di quello che in realtà sta succedendo quotidianamente nelle aule, invece, non c’è in questo momento alcuna narrazione: le parole stanno tutte in spazi circoscritti e chiusi. Nei registri elettronici. Nelle presidenze. Negli studi degli psicologi per chi alla cura arriva. Nei Consigli di classe straordinari. Nelle telefonate con le famiglie (spesso esasperate). In qualche confidenza. Negli sportelli di informazione e consulenza interni agli istituti che non sanno più da che parte prendere. Negli spazi adolescenti, quando esistano e abbiano abbastanza personale per far fronte alla richiesta (5.000 psicologi nella sanità pubblica a fronte di 60 milioni di abitanti cosa sono?).
Non esiste un modo, in questo momento, per fare uscire il malessere di cui le scuole (e li insegnanti in primis) si stanno facendo carico.
Altrimenti, se ci fosse percezione della realtà che dalle scuole trabocca, la decisione di far sparire dalla manovra di fine anno il bonus per l’accesso alle cure psicologiche apparirebbe né più né meno che questo: una generosa assenza di senso.
Non c’è un verbo, del resto, per definire il rumore di fondo che dalla scuola emana: scrocchiano le giunture e i legami, in tutte le direzioni. Ma non si vede.
È quello che la tecnologia spiega, e anche bene: quando a una materia si applichi una sollecitazione spossante, la materia resiste fin che può. Ma poi si spacca. E quando la frattura è duttile, “la superficie di rottura non è generalmente correlata con la direzione di applicazione dei carichi principali”.
Così mentre riparte la prevedibile, pesantissima coreografia delle varianti della maturità (sì il tema, no il tema, sì le tesine, no le tesine, sì commissione interna, no commissione interna. Eccetera), mentre ricomincia lo snervante peana tra chi vorrebbe la didattica a distanza subito a tempo indeterminato poi si vedrà, una rottura ben più profonda si sta facendo strada nella scuola di oggi (e nella società di domani).
Il fatto è che questi due anni, sull’istituzione scolastica italiana, hanno pesato come duecento; e per chi ci sta dentro sono stati come venti in un colpo solo.
Settembre sarebbe stato un ottimo momento per interrogarsi sugli insegnamenti, sulle ricadute, sulle necessità di una situazione che urla emergenza. Invece, al massimo, s’è favoleggiato sulle magnificenze dei licei da quattro anni: nessuna riflessione condivisa, nessuna esigenza di ascoltare gli insegnanti, il loro vissuto didattico, di approfittare di buone e cattive pratiche azzardate di persona.
Il colpo di spugna, una presunzione di normalità, hanno prevalso su tutto, e ognuno ha sperimentato da sé cosa ha significato tornare dentro classi fatte di corpi e di volti nelle quali parole come entusiasmo, passione, desiderio (per non dire: felicità) sono bandite, autocensurate, dimenticate, sconosciute.
Se la scuola è il primo luogo in cui si impara ad essere società, il tempo del confino ha agito smantellando la socialità.
Il risultato è stato uno solo: fatica. Una fatica mostruosa, a fronte di reazioni non più leggibili con gli strumenti del “prima”.
I ragazzi non rispondono. Non hanno più voglia di andare a scuola. Scompaiono (una indagine di Save the Children condotta insieme a Ipsos paventa che l’impennata degli abbandoni scolastici potrà riportare la percentuale dei ritiri al 20%, ovvero indietro di quindici anni).
I ragazzi non reagiscono. Faticano a trovare il senso dell’astrazione (fatichiamo noi, ammesso che ci riusciamo: perché per loro dovrebbe essere diverso?). Non riescono a concentrarsi, a fare le cose (idem). Non ne sentono la necessità. Non sono più abituati ai rapporti sociali. Li temono, o confliggono. E così esce la rabbia.
Stanno male. E noi, con loro.
All’estremità della catena educativa, la scuola degli adulti ha pagato un tributo altissimo in termini di abbandoni. Spacchettati in turni che non hanno più nulla della routine conquistata in decenni di lavoro, per gli adulti fare giornata è diventato un privilegio, e la scuola – a fronte della sopravvivenza – perde di priorità; percorsi faticosamente costruiti per darsi altre chance diventano in poco tempo opzioni rinunciabili. Mentre la frustrazione aumenta.
E così (di nuovo) cresce la rabbia.
Eppure, siamo animali intelligenti. Acquistiamo al supermercato, tra le caramelle e i profumi, i test antigenici che solo un anno fa erano inarrivabili. Abbiamo il vaccino. Avremo a breve la terapia in pasticche. Stiamo facendo fronte alla quarta ondata della pandemia. Tutto quello che potevamo fare per i nostri involucri corporei lo abbiamo messo in atto.
Perché, allora, non ci stiamo (davvero) difendendo?
La prima guerra mondiale fece sei milioni di morti. Dalle cifre di cui oggi disponiamo, la pandemia ne ha accertati cinque milioni e mezzo. Basterebbe questo per prendere le misure con l’entità di quello con cui siamo chiamati a fare i conti.
Non mi è mai piaciuto il parallelismo tra malattia e conflitto, la terminologia militare poco si attaglia a quello che significa la cancellazione di migliaia di vite di nonni e nonne soffocate nel proprio letto. Però, se c’è un momento in cui tirare per la giacchetta le nostre memorie belliche, è proprio questo. Non in cerca di eroi di facile consumo. Ma per sostenere la difficoltà, e per darsi l’opportunità di un “dopo”.
Fu, la prima guerra mondiale, il momento di una frattura non solo e non soltanto per gli armamenti, le tecniche, i fronti lunghi, eccetera – tutti parimenti volti ad annientamenti massivi.
Detonante in modo ben più definitivo nella società del tempo fu la fine della guerra, per due aspetti: da una parte per quei venti e passa milioni di sopravvissuti, reduci e mutilati, che divennero di fatto una nuova categoria, del tutto inedita dal punto di vista delle patologie e delle sofferenze; dall’altra per il coinvolgimento dell’intera compagine sociale (famiglie, istituzioni, legami, affetti, amicizie) nel trauma del conflitto.
Ora, se al tempo gli strumenti per affrontare l’enormità di quel trauma collettivo e per curare i disturbi correlati risentirono di conoscenze nulle o scarse (nessuno aveva mai attraversato un dissesto globale come quello) oggi, dico, perché non ci stiamo difendendo?
Perché non teniamo conto dei danni che questo evento enorme ha causato nelle nostre teste? Perché non consideriamo la carica di rabbia che ha chi non ha potuto venire a patti e affrontare il proprio malessere? Perché riteniamo importanti televisioni rubinetti e zanzariere, ma non la concreta possibilità di accedere alle cure psicologiche – anche a fronte di un aumento di richieste esponenziale, e che i primi rilevamenti pongono, nella fascia tra i 18 e i 35 anni di età, al + 100%?
Adulta è la società che considera la paura, non che la ignora, la sbeffeggia o – peggio ancora – la rimuove.
*Insegnante bellunese
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