Quell’arte al confine tra sacro e profanoe tra nord e sud
Dal legno delle Dolomiti il grande artista «estrae» il genius loci
"Saturno". Padova, collezione privata
E’ difficile riassumere in una formula il senso dell’avventura artistica di Andrea Brustolon. Honoré de Balzac lo chiamò «il Michelangelo del legno». Leopoldo Cicognara gli attribuì «eleganza e dolcezza» in mezzo a una «folla di cattivi manieristi». I bellunesi lo ascrissero al pantheon delle glorie patrie. Ma la definizione forse più consona di quello che è riconosciuto come il più illustre scultore in legno bellunese è l’esser stato, nella sua epoca, cerniera tra nord e sud.
Come scrive Giovanna Galasso, conservatore del Museo civico di Belluno, riprendendo il viennese Oswald Kutschera-Woborsky (il primo che, nel 1919, dedicò al Brustolon un saggio sui disegni preparatori): «Se si può pensare a Filippo Parodi quale intermediario tra Brustolon e la grande scultura marmorea romana, e che questa influenza abbia contribuito a un raffinamento dello stile dello scultore, è in ogni caso la sua padronanza nel lavorare il legno a rendere uniche le sue opere. Agisce cioè in Brustolon il genius loci di una terra percorsa da correnti artistiche diverse - dal Tirolo e dalla pianura veneta - e dall’incontro/scontro tra Nord e Sud e tra antiche forme e nuove realizzazioni nasce quella che Kutschera-Woborsky definisce l’ambivalenza dell’arte di Brustolon, artista di arte applicata e di grandi sculture». Citazione lunga, ma esauriente, e che riassume la vicenda umana e artistica di Brustolon.
L’Andrea figlio di un Giacomo sartor e bombardiero (cioè della Confraternita degli archibugieri), nato nel 1662 a Belluno (e non in Zoldo come spesso si continua erroneamente a ripetere) andrà a bottega a Venezia, subirà l’influsso di Parodi e Le Court, passerà forse per Roma (ma non è affatto certo, trattandosi di accenni e soprattutto di un’ipotesi fondata su modelli che, comunque, Brustolon avrebbe ben potuto assumere da altre fonti documentarie e non de visu), ritornerà a Belluno dove gestirà una sua bottega, getterà il cuore ben oltre il barocco e il barocchetto, fino ad accennare a ispirazioni già vagamente neoclassiche. E tutto ciò in un mondo artistico dominato infine dal manierismo.
In qualche modo, dunque, un artista a cavallo di epoche e di stili, non solo di confini geografici e culturali. Va da sè che, se questa è l’ambivalenza intrinseca, strutturale dell’artista, la sua importanza non poteva essere celebrata che tardivamente. E tuttavia il Brustolon fu accarezzato in vita da una committenza generosa (soprattutto ecclesiastica, ma non solo: basti pensare al fornimento Venier, alle sedie per la villa dei Pisani di Stra, alle Allegorie Piloni per il bellunese conte Tiopo), alla quale egli s’adattò come per natura, senza rimpianti, senza riottosità, tantomeno rifiuti.
Non diventò, per questo, ricco; benestante sì, con qualche casa e qualche terreno in Val Belluna e in Alpago. Se la fama, o meglio l’apprezzamento, è coevo, la riscoperta è postuma. A tal punto che di lui, della sua vita, in effetti poco si sa, e pure quel poco è incerto. Andò a Venezia nel 1677, ospite di un Antonio Buzzati bellunese, probabilmente (c’è una lettera che lo attesta) a studio da Filippo Parodi, genovese chiamato in laguna per erigere un monumento funebre nella chiesa dei Tolentini. Sembra, ma non è certo, che andò a Roma (la data resta comunque sconosciuta) per studiare l’antico: lo si deduce da alcuni disegni del Laocoonte e da un busto di un personaggio romano, ma non esiste documentazione del viaggio. Fu credente? Le numerose committenze ecclesiastiche fanno propendere per il sì, ma anche qui non v’è prova certa, e nemmeno traccia di iscrizioni a confraternite, com’era uso.
Si sa di una sorella ossessa (mai citata e di cui non si conosce il nome), esorcizzata da un padre inquisitore nella chiesa di Santa Maria de’ Battuti a Belluno, infine dimenticata. Si sa, ancora, di un antenato, un Andrea (pure lui) Brustolon detto el Zotto, strangolato dal diavolo nel 1602 (perchè «essendo amalato non si volse confessare» e poi fu trovato morto nel suo letto). Si sa che il padre aveva bottega, ma di sartor e non di intagliatore, e forse Andrea la utilizzò per il suo lavoro pur non essendo registrato nell’arte. La sua non fu tuttavia bottega di tipo familiare, com’era consuetudine all’epoca. Non si sa, ancora, se ebbe figli, e nemmeno se si sposò, pare comunque di no (ma di figli avrebbe comunque potuto averne anche senza matrimoni). Fu sepolto in San Pietro di Belluno, ma la tomba finì distrutta durante lavori di ristrutturazione nel 1831. Non risulta iscritto ad alcuna corporazione, passaggio obbligatorio all’epoca per potere esercitare un’arte. Molte sculture sono perdute, ne abbiamo menzione talvolta indiretta. E dispersi tra guerre (soprattutto la prima mondiale) e spartizioni ereditarie finirono anche molti disegni e terrecotte usati come modelli o, talvolta, accenni di correzioni, «campionari» per i committenti, schizzi di idee creative ma più spesso indicazioni ai lavoranti di bottega. Non si ha, del Brustolon, nemmeno un’immagine, sicché non possiamo toglierci la curiosità di sapere come fosse fatto. Sì, c’è un busto (esposto in mostra) che gli dedicò Valentino Panciera Besarel, altro successivo grande scultore bellunese (lui sì, zoldano).
Ma le sembianze, per quel busto, furono tratte da un immaginario disegno frutto di uno scherzetto giovanile di Osvaldo Monti che l’aveva «copiato», contrabbandandolo come il vero ritratto dell’artista, da un mediocre ovale trovato su un medaglione in casa Zanolli, eredi del Brustolon: poi quell’immaginario ritratto di Monti, in assenza di immagini coeve, fu a sua volta ripreso come vero e nel 1837 stampato a incisione sul «Cosmorama Pittorico», e ristampato, e poi ancora ristampato. Monti in tarda età, contrito, confessò il peccato: ahimè inutilmente, ché tutti continuarono a credere vero il ritratto e falsa la confessione. Andrea Brustolon, insomma, appare e riappare nelle nebbie del tempo e dell’arte. Perfino il nome: Brustolon, è certo, ma talvolta Brustoloni e Brustolini (in Francia, ovvio, Brustolone). I tratti fantasiosi e ingentiliti nel busto del Besarel forse non rendono giustizia al nome, se è vero che l’etimo riporta a un aggettivo dialettale che indica una persona che ha sulla faccia «del ribollimento con pustole rosse». Ma si sa, i cognomi non sono sempre consequentia rerum, e pustoloso sarà stato qualche avo, nell’epoca lontana quando il nome si fissò, preso di peso da un soprannome. Per questo, annota giustamente la scheda in catalogo, «la conoscenza della vita di Andrea Brustolon, uno dei più originali scultori e intagliatori del barocco veneziano, è tuttora sottoposta ad un dibattito critico che ha ripreso vigore dopo alcune recenti indagini documentarie che tuttavia non chiariscono, in maniera definitiva, alcune questioni aperte sulla biografia dell’artista che, fino ad oggi, si basava sulle ricostruzioni ottocentesche dei suoi apologeti».
Ma al di là della biografia, comunque importante per capirne radici, formazione, influssi, frequentazioni, resta il navigare alto di un artista che, se è figlio e interprete del suo tempo, da un lato lo è in modo personalissimo e singolare, dall’altro si espande oltre la sua epoca fino a diventare anticipatore immaginifico di un sentire artistico che non a caso fu apprezzato in epoca romantica. Sicché il caratterizzarlo come solo artista del sacro non gli rende giustizia, ed anzi lo tradisce. Lo fu certamente, e in modo eccelso. Fu però anche artista del profano, come documentano alcune importanti opere che, fra l’altro, non sono certo inferiori alle prime per le quali rimane tuttora maggiormente noto.
(t.s.)
Argomenti:brustolon
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi
Video