Sala dal Nepal: «La valanga ci ha sfiorati. Lassù è ancora un incubo»
BORCA DI CADORE «Siamo dei miracolati. Lo posso dire perché abbiamo visto la morte in faccia. Ora siamo alla Piramide, stiamo tutti bene, a parte qualche botta». Arrivano via telefono satellitare le parole con cui l’alpinista cadorino Marco Sala Tuze, componente della spedizione Lhotse Expedition 2015 scampata per miracolo alla valanga abbattutasi sul campo base dell’Everest a seguito del terremoto che ha sconvolto il Nepal, ha voluto anche ieri mattina tranquillizzare amici e familiari sulle sue condizioni. Marco Sala, di Borca di Cadore e gestore del rifugio Staulanza, nello Zoldano, ieri si trovava al Laboratorio Piramide gestito dall’Associazione Evk2Cnr di Agostino Da Polenza, a 5.050 metri di quota, sul versante nepalese dell’Everest. Con lui i suoi compagni di avventura Mario Vielmo (capo spedizione), la pneumologa Annalisa Fioretti, il trentino Sebastiano Valentini e il giornalista Claudio Tessarolo.
Cosa ricorda di quei terribili momenti vissuti sabato al campo base dell’Everest? «Eravamo al campo base, tre forti scosse di terremoto hanno innescato una serie impressionante di valanghe. Un seracco enorme sulla parete del Pumori si è staccato, superando i quasi 2 chilometri di estensione del campo base alla velocità di circa 200 orari: metà del campo è stata spazzata via da un uragano di neve, detriti e rocce. Impressionante, non trovo altre parole per descrivere quello che ho visto. Il nostro campo, che si trovava sulla direttrice principale della valanga, era protetto da un seracco di ghiaccio alto cinque metri, quello che ci ha salvato la vita. Sono uscito dalla tenda, penso, tre secondi prima dell’arrivo di quel mostro e mi sono tuffato in maglietta e piedi nudi nella tenda di Annalisa, che era più protetta, salvandomi la vita. Finite le scosse siamo usciti. Fuori era una tabula rasa, la tenda della cucina, la tenda mensa, la mia tenda personale: non c’era più nulla».
Le testimonianze riferiscono di scene indescribili, morti sparsi ovunque. Anche i soccorsi sono stati drammatici? «Insieme ad Annalisa, che è medico, abbiamo cercato di dare una mano. Ci trovavamo in mezzo a una scena di guerra: corpi maciullati ancora avvolti nelle tende, gente che urlava, sangue dappertutto. Nevicava forte, nelle orecchie il frastuono delle valanghe, un vero incubo. Abbiamo aiutato fin che potevamo poi, alla sera, siamo scappati a Gora Shep, sotto al campo base, in preda al panico per le continue scosse d’assestamento. Stiamo tutti bene a parte qualche botta».
Domenica siete risaliti al campo base? «Io e Annalisa, a vedere se c’era ancora bisogno di una mano e per sistemare le nostre cose, assieme ai nostri sherpa. I feriti più gravi erano stati portati via in elicottero a Periche e Lukla, ma anche oggi (ieri, ndr) abbiamo visto volare molti elicotteri. Il posto è ancora insicuro, ci sono scosse continue, c’è da avere paura, un po’ ovunque crolli e valanghe: siamo scappati di nuovo, diretti alla Piramide. Agostino Da Polenza, che ringrazio, ci ha aperto le porte del laboratorio. Passeremo qui la notte».
Quando pensate di poter tornare in Italia? «La situazione è ancora drammatica, lungo la valle i Lodge (le strutture dove alloggiano i trekkers, ndr) sono crollati, non c’è acqua e si fa fatica a trovare cibo. A Lukla è tutto bloccato e piove. Da Lukla potremmo ripartire verso Kathmandu, usando dei piccoli velivoli da 12-14 posti, ma adesso è tutto bloccato. La priorità va ai feriti, non so quando riusciremo a scendere. A Kathmandu, inoltre, c’è il disastro completo. Intanto passiamo la notte in Piramide, al coperto, poi proveremo a scendere a Namche, dove forse la situazione è più buona per attendere che migliori tutto. A 50 anni volevo farmi un altro Ottomila: è andata così, ma siamo dei miracolati, siamo ancora vivi».
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi