«Serve un nuovo modello per le piccole parrocchie»

Monsignor Renato Marangoni traccia un bilancio dei primi 12 mesi sulle Dolomiti. «Non ho molto tempo per le escursioni, ma le montagne le sento dentro»

BELLUNO. È talmente legato alle montagne da averle volute nel suo stemma. Ad un anno dalla sua nomina monsignor Renato Marangoni, vescovo della diocesi di Belluno-Feltre, racconta l’impatto con le Dolomiti e anticipa gli impegni per il futuro. Con un obiettivo chiaro: calare le comunità nel territorio nonostante le insidie dello spopolamento e la crisi delle vocazioni.

«Nel mio stemma le vette e il Piave»

Lei è un grande appassionato di montagna e da un anno vive nel cuore delle Dolomiti. È riuscito a fare almeno qualche escursione?

«Solitamente frequentavo la montagna d’estate, dedicandoci una vacanza. Ma quest’estate è stata fitta di impegni: sono stato a Cracovia con i giovani, poi in Niger per trovare don Augusto Antoniol, che è uno dei due preti Fidei Donum. Ed ancora a Roma al corso per i nuovi vescovi, occasione in cui ho incontrato Papa Francesco. Non ho avuto molto tempo di fare escursioni ma le montagne le sento dentro: vivere qui è stato naturale e spontaneo».

Possiamo dire che da subito si è sentito a casa.

«Sì, lo spostamento non ha comportato particolari difficoltà, anzi mi sono sentito naturalmente immerso in questo ambiente. C’è stato un grande cambiamento a livello di persone, visto che ora mi confronto con un nuovo presbiterio. Ma anche in questo caso non è stata una “terapia d’urto”. La diocesi di Padova è molto vasta ed ero abituato a girare molto ed incontrare persone nuove».

Com’è stato il passaggio da Padova a Belluno? Sono due contesti molto diversi.

«A livello di estensione territoriale non c’è molta differenza con la diocesi di Padova e anche le distanze, tutto sommato, impegnano un tempo simile. Più che i fattori geografici, quello che mi ha colpito è stata la configurazione delle comunità, sono molto piccole. Il mio obiettivo era, salvo diversi impegni, di incontrarne una al giorno. Sono partito dal Comelico, piano piano ho incontrato il Cadore, poi l’Agordino, l’Alpago, Lamon e Sovramonte, Longarone e la Val Zoldana, ora ho completato la forania di Feltre e sto avvicinandomi a Belluno. Su 158 parrocchie ne ho incontrate più di 100 ma non ho voluto eventi straordinari, solo celebrazioni in forma ordinaria. Durante gli incontri ho avuto modo di parlare con le comunità e molti mi hanno espresso le loro perplessità sul futuro e la loro preoccupazione per lo spopolamento della montagna».

Sono argomenti molto sentiti dalla comunità bellunese.

«Sono emersi in modo molto familiare, ho visto che le persone hanno desiderio di parlare. E su questo vorrei impegnarmi: le nostre comunità non devono essere luoghi dove si pratica la religione in modo abitudinario ma vorrei che fossero un piccolo laboratorio dove interpretare insieme il tempo che si sta vivendo. Questo lo esige il Vangelo stesso: essere cristiani vuol dire interrogarsi sul tempo in cui si vive, sul come lo si vive».

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Questo si traduce in una maggiore apertura ai laici?

«Mi sembra un po’ strano dover parlare di apertura ai laici, perché i laici ci sono già. È inimmaginabile una comunità che ruoti solamente intorno alla figura del parroco: in alcuni casi sta diventando una figura da ripensare».

In che senso?

«Su 158 parrocchie ci sono 87 parroci. Di questi, 42 seguono una parrocchia unica mentre gli altri 45 sono parroci in più di una parrocchia, a volte anche otto in contemporanea. Nei prossimi giorni incontrerò questi parroci perché vorrei capire come vivono le comunità. Bisogna capire se questo può essere un modello per il prossimo futuro e studiare delle soluzioni. Storicamente abbiamo avuto una stagione, gli anni ‘60, in cui c’erano molti preti e le parrocchie si sono moltiplicate. Ora però sono cambiate le cose e dobbiamo vedere quello che sta succedendo come un’opportunità per essenzializzare e per, come dice papa Francesco, uscire allo scoperto. Tutti insieme, preti e laici».

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