Sherif: «Sono fuggito ma non avrei voluto»
BELLUNO. Sherif viveva in Senegal fino a quindici mesi fa. Faceva il commerciante e la sua attività era florida. Poi un giorno ha deciso di non piegarsi ai ribelli, che dal 1982 conducono una guerra sanguinosa nella Casamance, regione del Senegal meridionale compresa fra i territori del Gambia e della Guinea Bissau. La Casamance chiede l’autonomia dal Senegal da oltre trent’anni.
«Il conflitto armato ha causato tantissimi morti, i villaggi sono stati abbandonati, le scuole sono state chiuse, quando non sono state distrutte», ha raccontato Sherif portando la sua testimonianza di cosa significhi vivere in un contesto di violenza. «Gli insegnanti venivano violentati, i bambini non studiavano allora e non studiano nemmeno adesso. Anche gli ospedali sono stati distrutti, i medici che non collaboravano con i ribelli venivano torturati e uccisi. Tutte le persone che non stavano con i ribelli vedevano i loro campi distrutti, le loro case bruciate».
Anche a Sherif è successo. «Ero un commerciante in Casamance, mi ero fatto da solo e la mia attività funzionava bene. Poi sono arrivati i ribelli». E tutto è cambiato. «Hanno provato a intimidirmi, ma ho resistito, allora mi hanno torturato e hanno bruciato il mio negozio. A quel punto la mia famiglia, quello che restava perché in guerra ho perso tanti miei cari, mi ha consigliato di andarmene. Era troppo pericoloso per me rimanere lì».
Sherif è partito dal Senegal ed è arrivato in Italia, quindici mesi fa. «Non avrei mai voluto abbandonare la mia terra», ha concluso, fra la commozione della folla che lo ha ascoltato in religioso silenzio. Accanto a lui Michel, camerunense che vive in Italia da tredici anni e da uno a Belluno, dove si occupa dei richiedenti asilo. «La guerra non risolve mai niente», ha concluso Sherif nel suo italiano a tratti traballante, ma comprensibilissimo e carico di un realismo disarmante. «Crea desolazione, morte, povertà, genera odio, sfiducia fra le persone, aumenta la fame. In Senegal ha accresciuto il razzismo fra le etnie. Mi auguro che ci sia più dialogo e tolleranza fra le persone, affinché altri non siano costretti a scappare dal loro Paese, come ho dovuto fare io».
Dialogo e fiducia nei confronti del prossimo, anche se non è uguale a noi, è il messaggio lanciato anche da Michel. «Questi ragazzi arrivano in un Paese che non conoscono e fanno fatica ad interagire con la comunità. Un po’ perché non conoscono la lingua, ma anche perché spesso quella comunità non risponde nemmeno al loro saluto. Così restano chiusi in casa tutto il giorno. Quello che mi auguro è che ci sia maggiore fiducia nei confronti dell’altro». (a.f.)
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi