Si finge migrante sui social per stanare i trafficanti
Reclutamenti online di migranti attraverso Facebook, Instagram e Twitter. Può stupire il fatto che i trafficanti di uomini promuovano e pubblicizzino i loro servizi sui social network, quasi come una normale agenzia di viaggi, invece questi canali di comunicazione di massa servono a intercettare la domanda.
Gabriele Baratto, nato a Feltre e ricercatore all'università di Trento, ha studiato il fenomeno fingendosi un clandestino per stanare i trafficanti di migranti sui social network, insieme al professor Andrea Di Nicola, che insegna criminologia e guida il gruppo di ricerca eCrime dell'ateneo trentino.
«Trovare gli annunci dei trafficanti in rete è molto facile», esordisce Baratto. «L’obiettivo dell’annuncio è proprio quello: essere visibili e quindi contattati dal maggior numero di potenziali “clienti”. Sono centinaia i profili, le pagine e i post sui social network attraverso cui i trafficanti di uomini promuovono i loro servizi alla luce del sole, come se il servizio venisse offerto da una normale agenzia di viaggi. L’ampio utilizzo dei social è stato confermato nel corso delle nostre ricerche sia dalle interviste effettuate ai trafficanti (che ammettono di fare ampio uso di questo strumento) che dai “clienti”».
Come funziona il meccanismo?
«Abbiamo utilizzato un collaboratore madrelingua araba, visto che gli annunci sono quasi sempre in arabo. I trafficanti pubblicizzano i loro viaggi tramite post sui social network o gruppi dedicati, mettendo informazioni sui viaggi, come stato di partenza, destinazione, prezzi. Poi presentano numeri da chiamare per avere maggiori informazioni, sfruttando forme di comunicazione difficili da intercettare (ad esempio Viber o WhatsApp). Spesso questi post sono corredati da immagini idilliache dell’Italia e dell’Europa (la torre di Pisa, il Colosseo o la tour Eiffel), di mezzi di trasporto confortevoli (come arei di linea o yacht) o immagini di sbarchi andati a buon fine».
Che approccio avete usato?
«Abbiamo prima di tutto esplorato i social network. Basta inserire alcune semplici parole chiave quali “viaggi per l’Europa”, “viaggi per l’Italia”, o “Schengen”. Poi abbiamo contattato via chat i trafficanti e li abbiamo chiamati creando delle storie. Abbiamo finto di essere marocchini e di avere un fratello senza documenti in Turchia da portare in Italia, oppure di essere Siriani e di voler portare nel nostro Paese la famiglia. Dopo un iniziale momento di titubanza del trafficante, siamo riusciti a vincere la diffidenza e ottenere le informazioni».
Ci sono dei tariffari?
«Nei post visibili ci sono quasi sempre informazioni relativi alle varie tariffe. Ma le informazioni più dettagliate si ottengono sempre durante le telefonate. E funzionano proprio come delle agenzie di viaggi: più si è disposti a pagare, più il servizio sarà confortevole e sicuro. Non esistono infatti solo i barconi di disperati che tutti conosciamo. Se si ha molta disponibilità economica si può viaggiare anche in barche a vela o su yacht, con poche persone, e con possibilità di arrivo sani e salvi e senza possibilità di essere intercettati dall’autorità molto elevate. I trafficanti offrono inoltre quasi sempre sconti e promozioni. Ad esempio molti offrono prezzi agevolati per i gruppi o per le persone con più di 60 o 65 anni. Oppure il viaggio gratuito ai bambini sotto una determinata età. Infine, i trafficanti, specialmente quelli sui social, sono molto abili nell’adattare le loro offerte sulla base dei mutamenti del contesto geopolitico, sfruttando le opportunità che si presentano e aggirando agevolmente i problemi».
Gli avete chiesto dei rischi della traversata?
«Era uno degli obiettivi della nostra ricerca quello di capire la retorica utilizzata dai trafficanti. Spesso infatti abbiamo calcato la mano per chiedere rassicurazioni sui viaggi. Uno ci ha detto “Fidati. Chiedi in giro, informati chi sono io”. Un altro: “Io faccio il mio, Dio fa il resto”. Quasi tutti i trafficanti, comunque, sono sembrati seccati dalla domanda. Quasi come se vivessero come un affronto il fatto di mettere in dubbio la loro reputazione come organizzatori di viaggi o la sicurezza del servizio che promuovevano».
Perché avete pensato a questa ricerca? Può essere utile alle forze dell'ordine?
«Come spesso accade nel mondo della ricerca si intercettano dei segnali che il ricercatore trasforma in domande alle quali rispondere. In questo caso già da alcuni anni, facendo studi sul traffico di migranti, ci era chiaro che i trafficanti stavano iniziando ad usare Internet in modo sempre più assiduo anche se la ricerca scientifica in materia era ed è ancora quasi inesistente. Così ad eCrime ci siamo aggiudicati un grande progetto di ricerca applicata europeo sull’argomento (chiamato Surf and Sound) sull’argomento. L’obiettivo era proprio aumentare la conoscenza sul fenomeno al fine di elaborare strategie operative per Forze dell’Ordine e Ong. Tuttavia va sottolineato che fare il ricercatore non è la stessa cosa di condurre indagini. Nel caso del traffico di migranti, queste sono molto complesse a cavallo di tante frontiere di Paesi più diversi del mondo cercando di raccogliere prove che siano solide da portare a processo. Gli investigatori devono vincere i problemi tecnici, legali, di cooperazione internazionale e quelli legati all’anonimato che internet garantisce ai criminali».
Cosa vi hanno risposto i trafficanti?
«Fingevamo di essere un marocchino residente a Milano che voleva portare il proprio fratello, attualmente in Turchia e sprovvisto di documenti, in Italia. Il trafficante ci ha illustrato i vari “pacchetti viaggio”. Il primo costava 7.000 euro: un viaggio in una barca a vela direttamente dalla Turchia a una spiaggia non controllata in Italia e dalla quale era possibile poi raggiungere facilmente una stazione dei treni per proseguire il viaggio. Il secondo invece prevedeva uno “scalo marittimo” in Grecia, sempre con l’arrivo in Italia: il prezzo era di 6.200 euro. Il terzo, invece, copriva solo la rotta fino in Grecia e costava “solo” 800 euro. Sarebbe stato poi compito di nostro fratello quello di proseguire autonomamente a piedi, seguendo la rotta balcanica.
La cosa interessante è che pochi minuti dopo aver chiuso la telefonata è stato lo stesso trafficante a contattarci di nuovo. Ci informava che le autorità (sia in Italia che in Grecia) avrebbero subito capito che nostro fratello era marocchino e che dopo l’identificazione sarebbe stato bloccato ed espulso, in quanto non avente diritto ad alcuna forma di tutela.
Per questo ci proponeva un ulteriore servizio, offerto da un amico. Ci avrebbe fatto avere un finto atto di nascita e una finta patente di guida siriana, documenti con i quali nostro fratello poteva recarsi in ambasciata dichiarando di aver smarrito il passaporto chiedendone uno nuovo. Anche considerando la situazione caotica della Siria e di conseguenza anche dei registri dall’anagrafe, a nostro fratello sarebbe stato fornito un passaporto siriano, autentico. E come cittadino siriano avrebbe potuto chiedere asilo. A quel punto, però, si presentava il problema della lingua: il marocchino e il siriano sono diversi. Ma i trafficanti hanno pensato a tutto. Ci avrebbero fornito infatti anche una “storia” da raccontare alle autorità una volta fermato. Ovvero quella di avere un genitore siriano, uno marocchino, di essere nato in un determinato posto, cresciuto in un altro e così via. Conoscono molto bene le legislazioni e come funzionano i controlli e sfruttano le falle dei sistemi. Il costo totale del servizio era di 1.100 euro: 800 per l’amico che produceva i documenti, 300 per l’intermediazione». —
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi