«Sono una malata psichiatrica: che succede ora che chiudono Pieve?»

«Non mi vergogno di dire che sono una malata psichiatrica: siamo persone come le altre, ma più fragili».
L’approccio è diretto, di quelli che ti lasciano senza parole. Un ottimo attacco per un articolo, viene da pensare.
Ma queste parole, che arrivano via messenger, provengono da una vita di dolore. E non possono restare senza risposta. Dice infatti Maria (la chiameremo così per garantirle l’anonimato): «Sono una comeliana, leggo sempre quello che lei scrive, so che lei si è occupato anche dell’ospedale di Pieve. La novità è che da alcuni giorni hanno chiuso la psichiatria. Tra Cadore e Comelico gli utenti sono circa 800; resteranno attive sul territorio solo le visite a casa di personale qualificato, i medici faranno il possibile vedendo le persone nei loro studi medici, presso il Csm (centro di salute mentale, ndr) di Pieve di Cadore dove ci sono una psicologa, un assistente sociale e un centro diurno. Ripeto, 800 persone che, chi più chi meno, hanno bisogno di essere seguite, parlo perché sono una paziente».
Questo è il sommesso atto di dolore di Maria. Una vita di sofferenza che lei racchiude in poche righe. «Il disagio l’ho provato sulla mia pelle, ho fatto l’esaurimento da parto e da allora ho sempre avuto problemi. Non ho mai pensato di fare del male agli altri, ma a me stessa. Non mi vergogno di dire che sono una malata psichiatrica: siamo persone come le altre ma più fragili, non ho mai visto un menefreghista ricoverato, sono vicino a tutte le persone che soffrono, il dispiacere per questa chiusura è grande; ma se andiamo avanti così (e non è pessimismo) a Pieve resteranno il pronto soccorso ed il Suem. Ho ascoltato diverse lamentele, ma non possiamo farci niente, e non sappiamo neanche a chi dire grazie».
Le parole di Maria squarciano un velo fatto di numeri, tabelle, soldi, investimenti (o tagli) per la sanità pubblica.
Dietro a tutto questo ci sono però le persone. Persone come Maria.
Cosa sta avvenendo a Pieve? «In montagna si fa fatica a reclutare medici specialisti», spiega Fabio Candeago, primario dell’Unità operativa di psichiatria del Cadore «tanto che dopo gli ultimi due concorsi, gennaio 2018 e gennaio 2019, nessun collega ha accettato di venire a lavorare qui. Inoltre la nostra unità operativa è stata declassata da complessa a semplice e questo vuol dire che non servirà più un primario. Quando si accorpano i servizi (abbiamo oggi un unico dipartimento di salute mentale che copre tutta la provincia), la periferia ovviamente ne soffre».
Ma i pazienti invece aumentano. «Da Cortina al Comelico trattiamo effettivamente 700/800 pazienti all’anno, con interventi ambulatoriali di vario tipo, alcuni assidui, altri sporadici. Perdiamo adesso i 6 posti letto per pazienti in fase acuta, ma potenzieremo il Centro di salute mentale con anche dei posti di Day Hospital territoriale, oltre al già esistente Centro diurno. Poi ad Auronzo sono attive due Comunità psichiatriche. Il problema dunque sarà limitato a coloro che avranno necessità di ricovero ospedaliero e dovranno andare a Belluno. Nella struttura piccola come la nostra, che basa il lavoro sulla qualità della relazione interpersonale, il paziente che si è sempre sentito accolto può darsi che adesso possa percepire una perdita di servizio».
Quali forme di malattia trattate? «È chiaro che l’isolamento tipico della montagna possa acuire il malessere ed il disagio: trattiamo dai disturbi gravi di tipo psicotico, che non sono in aumento, ai disturbi della personalità, alle situazioni miste con uso di sostanze, e con danni importanti, ai disturbi affettivi, ansia, depressione».
È quello che vive Maria, e che sintetizza in una sua lettera. «È tanto che non scrivo e so che mi fa bene mettere la sofferenza sul foglio, ti aiuta a superarla, e quanta dai 22 ai 54 anni. Parlo del male oscuro, depressione e altro che ancora oggi fa male, anche se a periodi. Ti passa con l’aiuto dei farmaci, lo sai che è là e che da un momento all’altro può arrivare. Quante persone ho visto in questi anni in ospedali vari con problemi diversi».
«Tanti sensi di colpa verso i figli; e tu spiega che non c’eri perché non ce la facevi», prosegue Maria «e li hai dovuti sballottare di qua e di là; è difficile. E quanti avranno una storia di sofferenza come la mia! Non voglio fare la vittima, ma posso dire solo che non lo auguro a nessuno. Un piede ingessato si vede, il male che hai dentro no e dicono pure che lo fai apposta (chi non c’è passato). Quanta angoscia, quanti pianti e poi altro, provi a stare a casa, ma arriva il momento che proprio non ce la fai. Dicono che la sofferenza ti aiuta a crescere, non è così; nel mio caso un medico che ricorderò sempre, negli anni Novanta, telefonava a casa tutti i giorni, dopo 3 mesi di ospedale, e l’ultimo medico mi ha fatto finalmente staccare il cordone ombelicale da mia madre (che io adoro), ma sono diciamo più indipendente. Un po’ di sano egoismo, questo mi sono sentita dire spesso dai medici, perché qualsiasi cosa detta fa male, siamo sensibili, facciamo da spugna e poi si scoppia. Gli eventi della vita come a tutti ti restano dentro e ti segnano. Si l’ho fatto, ho fatto anch’io (qui Maria intende il tentativo di suicidio, ndr); il Signore ha voluto che mi hanno preso in tempo non ricordo niente e per questo amo la vita, ma resto di sasso quando succede a qualcuno che non è così fortunato».
«Sto bene in questi paesi che sono la mia terra dove conosco tutti», spiega Maria, «non vivrei mai in città. Ho finito il foglio e ne avrei di cose da scrivere». —
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