Sulla scia di Anna Maria Rech

Riscoprire la storia di un popolo, attraverso ricordi, testimonianze trasmesse di generazione in generazione, documenti, lettere arrivate sino ai giorni nostri, guardando a un nuovo punto di vista, più profondo, per gettare un'altra luce su un'epopea che da questa parte dell'oceano si è a lungo smarrita e che dall'altra parte è invece rimasta viva, perché legata a una fondazione, a una genesi, quella di un popolo appunto: i veneti del Brasile del Sud, emigrati in quelle terre lontane a partire dalla metà degli anni Settanta dell'Ottocento.  Un nuovo punto di vista, che è quello femminile, raccontato attraverso due giorni di convegno: domani a Pedavena, al centro «Guarnieri» e sabato a Cesiomaggiore, al museo di Seravella.


«Il fenomeno migratorio in Brasile», racconta Daniela Perco, conservatrice del museo etnografico della provincia di Belluno e del Parco Dolomiti, «viene studiato qui in Italia solo da alcuni decenni, dal centenario delle prime partenze, mentre in Brasile era già studiato da diverso tempo. Recentemente è aumentata l'attenzione verso le donne protagoniste di questa emigrazione, e anche in questo caso il Brasile è all'avanguardia, con una serie di studiose che stanno gettando nuova luce su questo fenomeno, scoprendone piano piano i diversi piani, da quello linguistico a quello della trasmissione delle tradizioni».  L'aspetto linguistico è legato essenzialmente al "talian", la lingua che ancora oggi parlano i discendenti di quei pionieri che a fine Ottocento raggiunsero e colonizzarono le foreste brasiliane. Una lingua formatasi con il tempo, dalla commistione di diversi dialetti, parlati in casa, dove spesso prendeva il sopravvento quello materno, ma alla fine dipendeva da una complessa serie di circostanze.  


«Le donne hanno avuto un ruolo chiave per l'alfabetizzazione. Come madri hanno trasmesso ai figli il loro dialetto, ma poi quelle alfabetizzate, e in Veneto all'epoca erano molte, dedicavano il loro tempo alla sera, al ritorno dai campi, all'insegnamento ai più giovani. Diventavano maestre. E' il caso di Maria Favretti, una zoldana che avrebbe dovuto svolgere un altro lavoro, come apprendiamo leggendo le sue lettere, ma che si ritrovò a svolgere il ruolo di maestra, ad insegnare l'italiano». Fu solo con il passare degli anni che si cominciò a studiare il brasiliano - che negli anni Quaranta, per volontà del presidente Getulio Vargas, soppiantò l'italiano, divenuto "fuorilegge".  Assieme alla lingua, le donne hanno trasmesso ai propri figli, ai propri nipoti le tradizioni del paese natio. Hanno tenuto viva nei primi anni la religiosità, fornendo gli insegnamenti etici e morali, nell'attesa che arrivassero, e poi si formassero sul posto, i preti. Hanno salvaguardato gli aspetti della cucina veneta, adattandola, anche come ingredienti, alle disponibilità del Brasile. Sono state cioè il vero fulcro delle comunità. Coltivavano la terra, si occupavano dei figli - la "ricchezza" dell'ambiente consentiva la nascita di famiglie numerose, dieci, quindici figli che poi diventavano mano d'opera preziosa per coltivare la terra - e della casa, lavoravano nelle aziende che pian piano erano nate, soprattutto nella zona di Caxias do Sul, che visse una costante industrializzazione basata nei primi tempi sull'eccedenza di due prodotti, il vino e lo strutto.  


«Per quanto partissero assieme intere famiglie, le difficoltà incontrate erano differenti per gli uomini e per le donne. Quest'ultime partivano spesso incinta o con bambini piccoli, che poi si ammalavano in nave. A volte le donne partorivano durante il viaggio. E dopo la quarantena dovevano trascinarsi a piedi verso l'interno del Brasile, con i figli al seguito. Gli uomini andavano davanti, le donne seguivano, in una situazione di promuscuità indescrivibile. E quando arrivavano nei lotti assegnati, ancora una volta gli uomini si assentavano. Partivano per costruire strade, per desertificare altre zone di foresta. E le donne rimanevano da sole, in un ambiente estraneo, che le spaventava con la sua fauna. Ci sono diversi racconti che parlano delle paure delle donne, che di notte sentivano gli animali "feroci" arrivare sino al limitare dell'abitato, sino alla porta delle baracche o delle capanne dove vivevano».  Studiando i documenti, ascoltando le testimonianze tramandate di generazione in generazione, si scopre che chi partiva da qui, abbandonando tutto, non partiva alla completa ventura - e a volte non partivano nemmeno i più poveri, ma quelli che avevano i soldi per pagarsi il viaggio. Aveva spesso un contatto laggiù, un parente o un conoscente che svolgeva il ruolo di punto di riferimento.


Nella maggior parte dei casi, inoltre, non partiva la singola famiglia, ma comitive intere - è il caso di Fastro di Arsié, da dove partirono oltre quaranta persone in una sola volta. «In Brasile si ricostituiva una famiglia allargata, venti o trenta persone, dove comandavano gli anziani, dall'alto della loro esperienza e saggezza. Poi con la necessità di colonizzare nuove terre le famiglie di dispersero e nacquero nuovi legami, di vicinato».  E se Anna Maria Pauletti Rech, partita da Pedavena con sette figli, è l'icona della donna emigrante - avendo anche dato il nome ad un villaggio, ora sobborgo di Caxias do Sul - moltissime sono le donne che hanno rivestito un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo anche industriale del Brasile del Sud, e che tutt'ora rivestono avendo scelto, a differenza della componente maschile più legata al dio danaro, la via dello studio, della conoscenza. Dell'arricchimento interno, spirituale. A tutte loro, ma soprattutto alle loro eroiche progenitrici, sono perciò dedicati i due giorni del convegno pedavenese e cesiolino.

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