Trevisan, l’eroe annegato nelle acque del Maè
LONGARONE. L'alluvione del 1966 nel Longaronese è legata in modo indissolubile al tragico destino del dottor Gianfranco Trevisan, morto la sera del 4 novembre nell’adempimento del suo servizio, insieme ad Angelo De Valerio. Trevisan era stato un punto di riferimento per la ricostruzione dopo il Vajont e la sua morte, con i danni dell'alluvione, fu un altro duro colpo per la popolazione che stava tentando di rinascere.
I figli Pierluigi e Fiorella vogliono oggi ricordare il padre, figura che dopo 50 anni è ancora nel cuore di tanti longaronesi.
Gianfranco Trevisan era nato nel 1926 a Teglio Veneto, dopo la laurea in medicina a Padova aveva esercitato in varie zone, tra cui il Cadore dove conobbe la futura moglie, Beneveuta Del Favero, di Lozzo. Divenne medico condotto di Longarone nel 1958 e andò ad abitare a Pians, chiamando con sè anche l'infermiera Maria Libera Frassetto che venne ad abitare a Roggia, con l'ambulatorio situato nei pressi dell'attuale municipio.
Poi venne la notte del 9 ottobre 1963. «L'ambulatorio era allagato ma ancora intatto», raccontano i figli, «quindi divenne un primo punto operativo per i soccorsi. Nostro padre, data la sua conoscenza dei pazienti, contribuì anche al difficile compito del riconoscimento delle salme. Nei mesi successivi noi e nostra madre fummo spediti per qualche tempo in Cadore dai parenti, mentre lui restò da solo a compiere stoicamente il suo estenuante lavoro».
«Dopo il disastro non volle mai abbandonare il paese, neanche per qualche tempo, come aveano fatto altri. Sentiva come un imperativo morale la necessità di ricostruire. Il suo carisma e il carattere solare lo resero un punto di riferimento per i superstiti che avevano perso tutto. Il suo era un sostegno in primo luogo psicologico a una comunità devastata fisicamente e moralmente. Per questo motivo nel 1964 la presidenza della Repubblica gli conferì la medaglia d'argento alla sanità pubblica. Divenne anche dentista per aiutare ancora di più e acquistò un terreno per costruire da zero una nuova casa».
Poi arrivò il 4 novembre 1966. «Era una giornata festiva con molti parenti venuti a trovarci. La nostra casa negli anni era diventata crocevia di molti artisti e fotografi locali, date la varie passioni culturali di nostro padre. Pioveva da giorni e ci fu la notizia di due operai bloccati a Codissago nelle acque del Piave. Nostro padre andò a vedere la situazione e poi tornò a casa fradicio, giusto in tempo per cambiarsi, perchè voleva tornare sul posto. Tutti gli dicemmo di non andare perché la pioggia era troppo forte. Lui comunque tornò a Castellavazzo dove il benzinaio del posto, Angelo De Valerio, gli chiese un passaggio per Ponte: voleva andare a trovare il fratello di cui non aveva più notizie. Nostro padre, infatti, nel frattempo era stato chiamato a Fortogna per un paziente e accettò di fargli un favore, visto che la strada era breve. Dovevano attraversare il nuovo ponte sul Maè, che era già stato spazzato via dell'alluvione: nessuno aveva ancora segnalato la cosa e loro volarono nelle acque impetuose del Piave»
«Per giorni credevamo fosse rimasto bloccato da qualche parte, magari a Davestra che era isolata, poi emerse la verità, con la macchina ritrovata distrutta. Nostro padre aveva espresso la volontà a nostra madre di essere seppellito nel cimitero di Fortogna con i suoi amati pazienti periti nel Vajont. Tutti i cittadini furono d'accordo. Tutti avevano una sua foto ricordo a casa. Gli fu conferita la medaglia d'oro alla sanità pubblica».
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