Turbativa d’asta sui lavori al cimitero di Antole: 27 anni di processi e si torna in aula
L’ampliamento del camposanto oggetto di un contenzioso dal 1998. Dalla Cassazione un altro rinvio. Il Comune chiede di essere risarcito, in ballo ci sono oltre 300 mila euro

Il primo atto di citazione risale al 9 aprile 1998. In mezzo ci sono state una sentenza di primo grado e una battaglia di ricorsi e contro ricorsi.
Dopo ventisette anni, la Cassazione ha cassato (per la seconda volta) la sentenza del Tribunale di secondo grado, che dovrà quindi riprendere in mano la complessa vicenda del risarcimento danni chiesto dal Comune, e mai ottenuto nonostante in primo grado Palazzo Rosso avesse vinto.
La vicenda, lunga e complessa, affonda le sue radici in un momento storico molto delicato per il Paese. È l’Italia degli anni Novanta, quella di Tangentopoli e dell’inchiesta Mani Pulite. Siamo nel 1989. Il Comune deve ampliare il cimitero di Antole, e indice una gara di appalto invitando quarantaquattro imprese. Partecipano in sei. Il contratto viene aggiudicato nel 1991. Ma tre anni dopo il Comune lo rescinde perché si era scoperto che le imprese si erano messe d’accordo per far vincere l’appalto ad una di loro. Nel processo che seguì, fra gli imprenditori coinvolti uno venne condannato per turbativa d’asta, gli altri patteggiarono. Lo stesse fece l’allora capo della sezione Opere pubbliche del Comune.
Il Comune dunque rescinde il contratto con l’impresa che aveva vinto la gara nel 1994. E lamenta di aver subito danni, patrimoniali e non patrimoniali, di cui ritiene responsabili in solido tutte le aziende che avevano tenuto condotte illecite (secondo la sentenza di primo grado). Ma anche l’impresa che si era aggiudicata la gara trascina Palazzo Rosso in tribunale, per farsi pagare i lavori eseguiti. Inizia così il contenzioso, lunghissimo, che non si è ancora concluso.
Il tribunale di Belluno in primo grado dà ragione al Comune e condanna le imprese, in solido a pagare 189.627,11 euro, oltre a interessi e rivalutazione. È il 2008. La sentenza viene appellata da tre delle quattro imprese coinvolte e la Corte di Venezia (è il 2013) dà loro ragione: il credito del Comune viene reputato estinto.
Ricorso del Comune in Cassazione e contro ricorso delle imprese. Si arriva al 2018, la Suprema Corte rinvia tutto alla Corte d’Appello, ma ad altra sezione. Processo da rifare.
Tre anni dopo arriva la sentenza, che conferma quella di primo grado: il Comune deve essere risarcito. Sempre di quei 189.627,11 euro, oltre a interessi e rivalutazione. La cifra cresce, supera ormai abbondantemente i 300 mila euro visti gli anni trascorsi.
Due imprese (una in meno rispetto al ricorso precedente) si rivolgono di nuovo alla Cassazione, portando ventisette motivi di ricorso. E qui arriva l’ennesima sorpresa: la Cassazione, con la sentenza 34984 del 24 ottobre 2024 (depositata il 30 dicembre) accoglie alcuni dei motivi, in particolare quelli legati al pagamento in solido del risarcimento. Per la Suprema Corte “si è verificata una vicenda estintiva dell’obbligazione solidale con liberazione di tutti i debitori e con soddisfacimento dell’interesse dell’ente creditore”.
La “vicenda estintiva” è una sentenza (del 2007) passata in giudicato con la quale l’impresa che aveva originariamente vinto la gara “aveva opposto all’amministrazione comunale la compensazione del debito risarcitorio solidale con il proprio contro credito personale al corrispettivo dei lavori eseguiti”.
Nuovo rinvio alla Corte d’Appello, dunque, in altra composizione. I giudici dovranno stabilire se “l’effetto liberatorio” dei condebitori sia totale o parziale. Una causa eterna. Il Comune ha deciso continuare a far valere le sue ragioni: la giunta, poche settimane fa, ha deciso di difendersi con l’avvocato civico Paolo Vignola, insieme agli avvocati Gianni Zgagliardich di Trieste e Paolo Brancato di Venezia.
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