Un orto per 55 famiglie: a Stabie decolla la “Csa”

I consumatori sono riuniti in una “Comunità che sostiene l’agricoltura”.  Dimitri Zuccolotto e Isabella Paganin garantiscono loro verdure ogni settimana 
Terra Viva - Stabie di Lentiai (BL)
Terra Viva - Stabie di Lentiai (BL)

/ LENTIAI

Da Fener a Stabie il passo è breve se a muoverlo è l’amore per la terra, il territorio ma anche l’amore l’uno per l’altra. Dimitri Zuccolotto (37 anni) e Isabella Paganin (32) il passo hanno scelto di farlo assieme, dopo aver vissuto nella piccola frazione di Alano e aver piantato un orto di 100 metri quadrati per l’autoproduzione. È allora che hanno capito che la loro dedizione per il mestiere poteva essere una fonte di reddito, oltre che di sussistenza.

Ora si apprestano ad iniziare la sesta stagione agricola e a rifornire 55 famiglie di cassette colme di ortaggi freschi ogni settimana per 23 volte, secondo quanto previsto dal protocollo della loro “Comunità che supporta l’agricoltura” (Csa).

Come vi siete avvicinati a questo lavoro? «Nessuno dei nostri parenti praticava questo mestiere prima. Io sono di Altivole, in provincia di Treviso, mentre Isabella è di Quero: ci siamo avvicinati per passione e perfezionati attraverso l’autodidattica e la sperimentazione. Possiamo dire di aver cominciato 12 anni fa con il nostro primo orticello, poi una volta capito che ci sarebbe piaciuto vivere di questo lo abbiamo voluto trasformare nel nostro lavoro e ci siamo trasferiti a Stabie, vicino al terreno che oggi ci dà da vivere e da mangiare».

La vostra è un’azienda con un taglio particolare. «Oltre a praticare la permacultura e a perseguire l’agriecologia piuttosto che l’agronomia, che dà più importanza ai sistemi agricoli sostenibili anche per rafforzare la biodiversità invece che ai numeri, siamo una Csa, il che significa che non pratichiamo la vendita diretta né che portiamo il nostro prodotto nei mercati. Questa è una scelta fatta dopo il primo anno di prova per non avere invenduti, come anche per non buttare via nulla della nostra produzione, che è in quantità limitate e nasce dalla forza lavoro soltanto di noi due».

Come funzionano queste Comunità che supportano l’agricoltura? «Sono nate in Giappone a metà degli anni Sessanta e sono di fatto un impegno tra la comunità locale e l’azienda agricola per vendere tutta la produzione. Ci sono vari modi per farlo, noi ci siamo creati la rete con il tempo e condividiamo con ciascun componente un regolamento legato a un abbonamento pagato in anticipo. Questa formula si presta bene per la dimensione ridotta della nostra azienda, dal momento che avevamo bisogno di una svolta a livello economico. Le famiglie provengono da tutta la Valbelluna, dal Basso Feltrino fino a Mel; qualcuno risiede anche a Segusino. Puntiamo a crescere ancora, ottimizzando l’efficienza e guadagnando tempo per la consegna e la coltivazione di più ortaggi. Una realtà come la nostra avrebbe un potenziale di 60 unità, gestite con tutta una serie di programmazioni durante l’inverno».

Quindi come vi organizzate? «Partiamo con un calendario super dettagliato di cosa fare ogni giorno durante la stagione agricola, questo perché ci siamo accorti che l’improvvisazione ci fa perdere un sacco di tempo, un fattore molto importante anche perché non viene pagato. Abbiamo il calendario delle semine, quello dei trapianti, dei trattamenti… Ci autoproduciamo le piantine che poi coltiviamo. Ogni tanto ci piace ospitare persone che in cambio di vitto, alloggio e un po’ di esperienza, ci danno una mano nell’orto senza diventare forza lavoro, ma aiutandoci per condividere buone pratiche. La nostra realtà di fatto si basa solo sulle nostre quattro mani».

Vi definite anche piccola azienda agricola professionale. «Sì perché non serve essere grandi e altamente meccanizzati per essere professionali. Noi usiamo attrezzature manuali, non paragonabili con quelle impiegate nell’orto di casa ma fatte apposta per l’agricoltura su piccola scala. L’unico attrezzo meccanico che abbiamo è il motocoltivatore con erpice rotante per lavorare in verticale soltanto i primi 4 centimetri di terreno superficiale. Avere aiuole permanenti ci permette di non dover più lavorare il terreno, facendo sì che serva solo una minima preparazione. Non usiamo aratri, quindi non facciamo ribaltamento del suolo, né frese, quindi nessuno sfinamento, pratiche che tendono a impoverire la qualità della terra».

A fronte di tutto ciò, perché non volete la certificazione biologica? «Perché non troviamo giusto che chi lavora bene debba pagare per farselo riconoscere. E poi perché ormai la certificazione biologica tende a sminuire il lavoro che le persone come noi stanno facendo a favore del terreno e della biodiversità. Per parte nostra cerchiamo di rivitalizzare i suoli anche per evitare patologie».

Cosa ne pensate del progetto DDolomiti? «Che è un grande aiuto e per fortuna c’è qualcuno che pensa a farlo». Farsi conoscere è faticoso e poter contare su chi ci mette in rete offrendoci un’occasione di promozione, anche tramite la Guida dei custodi, è un aiuto prezioso». —

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