Una fuga da incubo dalla sua Libia
BELLUNO. Due imboscate subite nel giro di due settimane, un viaggio di rientro in Italia attraversando il deserto e scortato per uscirne vivo, e finalmente le montagne. Quelle che circondano il Peron, casa sua, visione rassicurante dopo settimane passate tra le dune di sabbia.
In Libia, paese nel quale ha lavorato per trent'anni, come meccanico. La sua è la storia di un emigrante, che presto finirà raccontata in un libro che sta scrivendo. Nato ai piedi del Peron 66 anni fa, Calonego ha iniziato a lavorare come apprendista meccanico a Sospirolo; dopo la naja ha varcato per la prima volta i confini italiani. Destinazione Svizzera. Aveva 21 anni, ci è rimasto per dieci e dopo una breve parentesi in Italia ha oltrepassato il Mediterraneo arrivando in Libia. Era il 7 febbraio 1979. Danilo Calonego è una persona precisa, ricorda le date come se non fossero passati più di 30 anni: «Perché ho sempre scritto tutto», racconta. «Ho un armadio pieno di agende».
Tutta la sua vita scorre tra le pagine ingiallite dal tempo, ma anche nella sua memoria vividissima. Dal '79 ha sempre lavorato in Libia, tranne brevi periodi. In uno di questi è stato in Laos, ma c'è rimasto tre mesi perché le condizioni di lavoro erano massacranti, con quel clima caldo e umido. «Sa, nel '79 in Libia c'erano 25 mila italiani, tutti emigrati lì per lavorare. Ma nel 2011 è scoppiata la guerra e sono scappati».
Lui è rimasto a lavorare come meccanico dei mezzi in una raffineria. Ha sempre aggiustato auto e camion, cambiando tante aziende e tanti stati. È rientrato in Italia l'11 settembre, con un viaggio pericoloso. «Dovevo rientrare con un amico, un collega», racconta. «Siamo partiti dal campo di Tahala alle 14.30. Tutti gli aeroporti della Libia sono stati i bombardati con la guerra e sono inutilizzabili, la frontiera tunisina è ancora chiusa e quindi l'unico modo che avevamo per tornare in Italia era passare dall'Algeria, attraversando il deserto libico. E stando attenti ai predoni».
Dunque com'è andata?
«Abbiamo fatto 85 chilometri nel deserto libico, poi siamo entrati nella terra di nessuno. La chiamano così: se disgraziatamente incontri i predoni o i terroristi, non sai cosa ti può capitare. Bene che ti vada, ti rubano tutto e ti picchiano. Anche il nostro autista, che era un tuareg, aveva paura. Quei 15 km mi sono sembrati un'eternità, si vedeva solo sabbia, e sabbia».
Poi siete entrati in Algeria?
«Sì, finalmente dietro una duna abbiamo scorto una casamatta: eravamo al confine. Anche la famiglia di Gheddafi era passata per quello stesso posto nel 2011, quando la frontiera algerina era rimasta l'unica via di fuga dalla Libia. Ci hanno accolti bene (qui devo ringraziare l'azienda per la quale lavoravo e l'ambasciata italiana), ci hanno preparato un visto di transito e ci hanno messi su un Toyota blindato. A bordo c'erano due militari (uno con il mitragliatore a tracolla), eravamo scortati da sei auto, ciascuna con cinque gendarmi armati. Dovevamo fare 330 km nel deserto algerino, dove ci sono alcune cellule di Al-Qaeda. Ci sono volute 5 ore per arrivare al piccolo aeroporto di Janet, da dove siamo decollati per Algeri. Da qui a Roma e poi Venezia».
Destinazione Belluno...
«Peron. Malgrado fosse sera e ci fosse poca luce, ho visto le montagne e mi è sembrato di essere stato in un altro mondo per anni e anni. In particolare negli ultimi tre mesi avevo visto solo distese di sabbia e tuareg, gli uomini blu, come li chiamano, perché usano un turbante di quel colore».
Lei ha vissuto in Libia tanti anni. Com'era ai tempi di Gheddafi?
«Noi emigranti eravamo rispettati, molto. In Libia si entrava solo per lavorare. Appena arrivavi ti facevano tutte le visite mediche e ti davano la residenza per un anno. Dovevi avere un contratto di lavoro per rimanere in Libia».
E com'erano le condizioni di vita?
«Bisognava rispettare le loro usanze. Si pranzava e cenava a orari precisi, la sera si andava a dormire presto. Gli alcolici sono banditi, si trovava il whisky in nero, costava 180 euro ma era rischiosissimo comprarlo: se ti trovavano con una bottiglia ti mettevano un bollino rosso sul passaporto e non saresti più potuto tornare in Libia. Ma del resto, non sarei rimasto tanti anni in Libia se le persone non fossero state buone».
E dopo il 2011? Dopo la morte di Gheddafi?
«Un disastro. Non c'è più alcuna regola. Con la guerra civile si è complicato tutto. Ma non voglio dire che con Gheddafi andasse tutto benissimo: so che sono successe cose terribili mentre c'era lui al potere».
Tornerebbe in Libia?
«Malgrado tutto quello che mi è successo quest'estate, sì. Ma quando le cose si saranno sistemate».
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