Una svolta nelle competenze regionali
BELLUNO. All’interno della riforma costituzionale che viene sottoposta al referendum di domenica prossima, c’è un’ampia parte dedicata alle competenze delle Regioni. Su questa modifica si concentra lo scontro tra i sostenitori del Sì e del No anche nel bellunese, perché è proprio la Regione l’ente superiore di riferimento per i territori. Per capire meglio cosa succederà, in caso di vittoria del Sì, abbiamo chiesto un’analisi della riforma a Sandro De Nardi, professore di Diritto Pubblico dell’Università di Padova.
Requiem per il regionalismo italiano? «Lunedì scorso», ricorda il professor De Nardi, «il Consiglio regionale del Veneto ha votato, a maggioranza (centro-destra e M5S) una risoluzione con la quale, qualora vincessero i Sì al referendum, il presidente della Regione è stato invitato ad impugnare subito davanti alla Corte costituzionale la legge di riforma della nostra Carta fondamentale: il tutto perché, a detta di chi l’ha votata, la riforma violerebbe il principio autonomistico di cui all’art. 5 Cost., a mente del quale «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento».
Cosa dice la riforma. «Se si prescinde però, come d’obbligo, dalle schermaglie e dalle contrapposte valutazioni politiche sulla reale influenza innovativa che avrebbe sul regionalismo italiano la riforma costituzionale in itinere e ci si attiene, anzitutto, a quanto è per davvero messo nero su bianco nella ipotesi riformatrice della Carta, in principalità si deve constatare che in prospettiva ove vincessero i Sì, ci sarebbero alcune conseguenze chiare.Innanzitutto verrebbero assegnate alla competenza legislativa dello Stato talune nuove materie e si individuerebbero casi di competenza esclusiva in cui l’intervento del legislatore statale sarebbe però vincolato a dettare vuoi “disposizioni generali e comuni”, vuoi “disposizioni di principio”».
«In secondo luogo», evidenzia ancora il professor De Nardi, «si eliminerebbe la potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni, in base alla quale oggi in talune materie (quelle di cui all’ art. 117, terzo comma, Cost.) lo Stato si limita a fissare i principi fondamentali mentre le Regioni dettano la disciplina di dettaglio: conseguentemente, e nel contempo, si procederebbe ad una redistribuzione di tali materie tra lo Stato e le Regioni».
La clausola di supremazia. «Il terzo effetto è che si introdurrebbe la c.d. clausola di supremazia che consentirebbe alla legge dello Stato, su proposta del Governo, di intervenire in materie di competenza regionale allorquando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o dell’interesse nazionale. Infine si modificherebbe l’art. 116, terzo comma, Cost., vale a dire quel precetto che - dal 2001 - consente alle Regioni ordinarie di chiedere un ampliamento della loro autonomia: in particolare, nella versione riformulata per un verso verrebbe ridotto il numero di materie che possono costituire oggetto di ulteriori forme e condizioni di autonomia, ma per altro verso si introdurrebbero delle novità che potrebbero agevolare l’iter procedimentale da seguire per ottenere il riconoscimento dell’agognato ampliamento autonomistico».
Solo una razionalizzazione? «Tuttavia, se quanto si è appena detto attiene al mero profilo delle modificazioni letterali che la riforma vorrebbe apportare, qualora si voglia valutare con adeguata cognizione di causa se e in che termini l’impatto delle suddette innovazioni segnerebbe per davvero un requiem per il regionalismo italiano o rappresenterebbe invece una mera razionalizzazione di una situazione – giuridica e fattuale – in buona parte già esistente, bisognerebbe spingersi ben oltre il mero (ed invero troppo semplicistico) raffronto fra testi (quello oggi in vigore e quello modificato se vinceranno i Sì): per tenere in debito conto la imponente mole di decisioni che dal 2001 ad oggi sono state rese dalla Corte costituzionale, le quali hanno finito per riscrivere in profondità il Titolo V approvato nel 2001 con il beneplacito del popolo italiano. In caso contrario c’è il rischio, elevatissimo, di prendere dei clamorosi abbagli: coltivando l’illusione - perché tale sarebbe - che l’autonomia di cui oggi le Regioni ordinarie effettivamente dispongono sia per davvero quella che sulla Carta sembra spettare loro», conclude De Nardi.
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