Vajont: oltre settecento lapidi raccontano il 9 ottobre

Accatastate nei magazzini del cimitero di Fortogna attendono da tempo una migliore collocazione. Le lastre di marmo sono conservate con dignità

LONGARONE. «Qui solo il pianto può far argine alla disperazione» è la prima reazione del cronista davanti alle 753 lapidi ammassate nel magazzino del cimitero di Fortogna. Un pugno nello stomaco. Sono passati 53 anni da quell'apocalisse, la sera del 9 ottobre 1963, e i morti ci parlano attraverso le loro foto. Sembrano vivi. «Sono vivi» correggono Renato Migotti e Gianni Olivier, due superstiti, mentre accarezzano i loro famigliari, i compagni di scuola, gli amici di gioco, come Amatore, uno dei figli del panettiere, Battista Cazzetta, classe 1922.

Le lapidi del Vajont: «Se restano nei sotterranei finiranno in discarica»
Placeholder

«Amatore, del '46, aveva un anno più di me» racconta Renato. «Veniva a scuola, ma dopo essersi alzato in piena notte per aiutare il papà a preparare il pane». Dunque, Cazzetta Battista, Cazzetta Amatore, Cazzetta Piero, 1952 e Cazzetta Gigliola, 1962, solo un anno di vita. Così sono state decimate intere famiglie. Famiglie unite in vita, drammaticamente divise nella morte. «Nel caso dei Cazzetta, ad esempio» segnala Gianni, dopo un riscontro nel quaderno all'ingresso del cimitero di Fortogna «hanno trovato solo il papà». Più di mezzo secolo dopo, sono 400 i morti non recuperati. I cippi che ne fanno memoria spiccano, candidi come sono, sul prato verde del 'sacrario' monumentale.

Ma dove saranno i 190 che mancano all'appello di Erto e della diga? «Lassù i caduti sono stati 158. L'anno successivo è stato svuotato il lago e nel fondo ne sono stati trovati 19. Sopra la diga c'era il cantiere dei tecnici e degli operai, qualcuno con famiglia e bambini; 54 sono deceduti e nessuno è stato trovato». Altrettanti mancano nella valle del Piave trascinati chissà dove dalle acque. Chi fa il punto è Olivier che ha perso il padre, la madre e un fratello, più altri 25 parenti. «Ho recuperato i resti soltanto di 15 di loro».

L'acqua ha risucchiato il padre, la madre ed il fratello anche di Migotti. È da capire perché fra queste lapidi, conservate con dignità, alcune riparate da un velo di naylon, il desiderio dei superstiti è solo quello del silenzio. Alcune foto sembrano ancora 'fresche', altre sbiadite, altre ancora irriconoscibili. Ma nessuna è stata gettata. «Non succederà fino a quando sarà vivo anche un solo superstite». Storie ancora vive, come quelle della panetteria Cazzetta, che pulsava nel cuore di Longarone, là dove c'erano la chiesa, il negozio del latte, quello delle scarpe. Quando è stato rifatto il cimitero, nulla, proprio nulla è finito nel cestino, nei bidoni. Se qualche lastra di marmo si è rotta, i pezzi sono stati ricomposti, basta di nuovo incollarli. Ecco il cassone dei crocifissi, che parlano da soli. Ecco un altro cassone, con gli angeli che ornavano le sepolture dei bambini. E poi le madonne in preghiera, i volti di Cristo in croce, con negli occhi la stessa disperazione che provarono tanti degli amici di Renato e Gianni, quella sera, se mai hanno avuto il tempo di realizzare ciò che stava accadendo. Prendiamo in mano una pesante corona, la passiamo a Gianni per decifrarla. È emozionato, non gli viene una spiegazione.

Lo aiuta Renato: "Sai, Gianni, forse questi sono i numeri delle croci in legno che abbiamo sepolto sopra le salme". 701 avevano il nome, 763 no. Sì, perché quanto restava di quei poveri morti è stato seppellito nel modo più cristiano, con la croce dell'identificazione accanto alla bara. 1464 sono, appunto, le bare inumate, i corpi risultano più numerosi. Il motivo? Da 600 testimonianze di soccorritori - testimonia Olivier - abbiamo dedotto che in tante bare si trovano braccia, gambe, pezzi umani di altre persone, recuperati nel fango e, ovviamente, non identificati; a tutti, in questo modo, si è data degna sepoltura. C'è un elmetto da vigile del fuoco, accanto due lampade a forma di fiamma.

C'è pure una catena. Sono i resti del cippo che ricordava i pompieri di Longarone, pure loro finiti nel vortice dell'onda. Non mancano neppure mazzi di fiori in plastica. Tutto è stato conservato, compresi i piccoli recipienti dei fiori, gli ornamenti a volte insignificanti, i pilastrini forse di nessun valore. Anche le lastre di marmo senza scritte, evidentemente staccatesi col tempo. Sulla parete all'esterno del magazzino, si materializzano, una dopo l'altra, 26 lapidi che al pellegrino riassumono le tragedie di intere categorie, dai coscritti ai bancari. C'è pure quella di Stava, fissata nel 1985, un evento nient'affatto naturale, come non lo è stato il Vajont dei 1910 morti di cui si fa memoria a Fortogna, il cimitero ristrutturato - fra le polemiche che ben si conoscono - nel 2003. E che è diventato monumento nazionale l'anno successivo, per volontà dell'allora presidente Carlo Azeglio Ciampi. In occasione del cinquantennale la richiesta del Comune era che fosse Roma a farsi carico della gestione e della manutenzione. Grandi ed autorevoli promesse, a partire da quella dell'allora capo del Governo, Enrico Letta. Non è successo nulla. Eppure basterebbero 80 mila euro l'anno, tra personale e spese. Oggi sono il Comune e la Pro Loco a prendersene cura.

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi