Il Piave, solco di storia rimasto senz’acqua
PONTE NELLE ALPI. Chiamatelo come volete, purché si smetta di sfruttarlo. È il grido d’allarme lanciato da Luigi D’Alpaos, docente emerito di idraulica all’università di Padova, a proposito del Piave. Originario dell’Alpago, riconosce in un battibaleno i luoghi immortalati da Martino Dal Borgo nella foto inviata al Corriere delle Alpi e scelta come protagonista della rubrica Belluno Meraviglia di questa settimana. «Siamo a Cadola di Ponte nelle Alpi» spiega, «più o meno nel punto in cui il fiume Piave è stato costretto a fare una deviazione di 90 gradi spostando il suo corso dal Fadalto alla Valbelluna». Sullo sfondo, continua il professore, si vede il «Cavallo» imbiancato, segno che il fiume non è ancora impegnato nel portare a valle le acque del disgelo.
Una foto che è, per chi la sa leggere, testimone della storia. «Vediamo questo percorso solo perché, nell’era Quaternaria, la frana di Fadalto ha sbarrato il corso del fiume deviandolo in Valbelluna» spiega il professore, «qui si vede la soglia rocciosa erosa dalle acque che progressivamente si sono fatte strada». Nonostante siano passati 12 mila anni i segni della frana sono evidenti, spiega D’Alpaos, per chi passa per sella Fadalto. E guardando il percorso del Piave dall’alto ci si rende conto della portata dell’evento che costrinse il fiume a raggiungere il mare dopo una lunghe e tortuose deviazioni.
Ma queste non sono le uniche informazioni che la foto restituisce ad un occhio esperto. «Questo è un fiume snaturato dal punto di vista idrologico» commenta il professore, «oggi vediamo solo drammatiche piene e magre altrettanto drammatiche: non esiste più la fascia di regime intermedio, la più importante in termini di modellazione del fiume. Il Piave è stato fortemente artificializzato, forse oltre il consentito». Anche quella che alcuni vedono come una rinaturalizzazione del corso del fiume, aggiunge D’Alpaos, altro non è che una conseguenza della sua artificializzazione: «l’alveo del fiume è occupato da una vegetazione abnorme» spiega, «è completamente cambiata la morfologia del fiume».
«Le acque del Piave sono super utilizzate, oltre ogni limite» precisa il professore, «basti pensare a questo dato: quando stava per entrare in funzione il Vajont furono concessi ulteriori 13 metri cubi al secondo. Ma dopo la tragedia quelle concessioni non sono più state toccate. Lo trovo vergognoso: penso che restituire al Piave quelle acque sarebbe un vero monumento al Vajont».
Le conseguenze di uno sfruttamento eccessivo, spiega D’Alpaos, sono serie: «si sentono in modo drammatico soprattutto sulla parte mediana del fiume» aggiunge, «e comportano la necessità di provvedere alla manutenzione artificiale del fiume».
In molti, però, guardano con nostalgia ai tempi in cui il Piave era un fiume navigabile, tanto da essere usato per il trasporto del legname fino in laguna. Epoche in cui non era diversa solo la morfologia del corso d’acqua ma anche la percezione da parte delle popolazioni locali. Solo in tempi recenti “la” Piave cambia genere diventando un fiume di genere maschile. «Ora qualche nostalgico si fa bello chiamandolo al femminile» commenta D’Alpaos, «ma secondo me questo è un problema secondario: più che il nome, salvaguardiamone le acque».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi