Luce e quiete in pieno centro tra i chiostri del seminario di Belluno
BELLUNO. Due chiostri, una chiesa, due cappelle. Ed ancora dipinti, iscrizioni, pale lignee. Tutto celato dietro il portone del civico 19 di via San Pietro, l’ingresso del seminario gregoriano di Belluno. Una ricchezza che incanta lo sguardo e appacifica il cuore ma che da pochi mesi non viene goduta più neppure dai seminaristi: erano tre, sono stati trasferiti a Trento.
Che dietro agli imponenti muri del seminario si nascondano tesori lo si intuisce anche percorrendo il Lungardo e soffermandosi a guardare l’ordinata fila di finestre che si affaccia su un prato - anche questo di proprietà della diocesi - salvato dall’edificazione. O ancora guardando l’austera facciata della chiesa di San Pietro che contrasta con i marmi e le opere d’arte custodite all’interno. Una meraviglia che non sempre è aperta. A maggio, però, ospita ogni sera la celebrazione del rosario.
Agli ambienti del seminario gregoriano si arriva entrando dall’ingresso firmato dall’architetto bellunese Alberto Alpago Novello. Il suo passato si intreccia con la storia dell’ordine francescano in città, una presenza accertata a partire dal 1200. Gli ambienti dove oggi trova posto il seminario videro la luce tra il ’300, per quanto riguarda l’antica chiesa, e il ’400 per i chioschi. Oggi passeggiare sotto i porticati significa immergersi nella luce e nel silenzio ma all’origine il clima che si respirava in questi luoghi era molto diverso: spesso ospitavano piante da frutto o erbe medicinali e si può immaginare che, quando il convento è stato trasformato in seminario, abbia ospitato anche le riflessioni di papa Albino Luciani, che qui fu seminarista e vicerettore.
Due chiostri, due stili. Il primo, detto “dei vivi”, ospita al centro un pozzo ed è circondato da lunette affrescate risalenti al ’500. Anche qui, come in molti altri edifici antichi cittadini, è stata utilizzata la pietra rossa di Castellavazzo, un materiale nobile e a “chilometri zero”. Si ipotizza che i cerchi affrescati che ritraggono santi e beati siano opera di Cesare Vecellio, cugino di Tiziano, che soggiornò nell’allora convento per un periodo. Il secondo chiostro, più piccolo, è invece di fine ’400 e ospitava alcune tombe. Al piano di sopra pare che gli ampi corridoi stiano solo aspettando di essere calpestati da un seminarista diretto alla biblioteca. «Vorremmo valorizzarla» spiega don Francesco Silvestri, prorettore del seminario e nostro accompagnatore, insieme alla guida turistica Marta Azzalini, in questo viaggio nel tempo.
Quello che vediamo oggi della chiesa di San Pietro, infatti, è il risultato di numerose trasformazioni subite nel corso dei secoli. Ma le pietre delle piccole cappelle nascoste sono in grado di raccontare la storia di questo luogo. L’impianto attuale è di metà ’700 ma l’originale chiesa francescana fu consacrata nel 1326. Lo attesta una scritta in caratteri gotici incisa nel muro della cappella Fulcis, un piccolo spazio affrescato eretto nel 1709 dall’omonima famiglia sul lato destro della navata. È qui che si trova la pietra di consacrazione dell’antica chiesa ed è da qui che, tramite una ripida scaletta, si arriva ad una piccola cappella. Gli interni rimodernati non nascondono l’impianto antico della struttura: in origine questo ambiente, l’unico sopravvissuto dell’antica chiesa, doveva essere il matroneo.
La chiesa di San Pietro oggi è piccolo scrigno di tesori abbellito dalla pietra grigia e rossa di Castellavazzo. L’edificio, a navata unica, ha conservato la volta a botte tipica dell’ordine francescano. Ospita alcuni capolavori dell’arte bellunese come la pala di Sebastiano Ricci, nata per la cappella Fulcis, o la struttura appesa al soffitto sopra l’altare e che, nonostante sembri di stoffa, è interamente in legno. Ma a rubare la scena sono le due pale lignee di Brustolon. Sono in legno di cirmolo biaccato e il sistema di lavorazione è per assi sovrapposte, unite con colla di coniglio e cunei. Oltre a particolari di grande bellezza sul piano artistico, presentano anche degli elementi mobili (come il rosario o il crocefisso tenuti in mano dal gesuita San Francesco Saverio, protagonista di una delle due pale) che denotano la grande capacità dell’artista di lavorare il legno. Non sappiamo se, come Michelangelo, Brustolon chiese alle sue opere di parlare. Ma la leggenda - successivamente smentita ma pur sempre affascinante - vuole che in origine le pale non fossero bianche bensì color legno e che fossero state dipinte per ingannare i napoleonici, facendoli desistere dal depredare una pesante pala in marmo, che in realtà marmo non era.
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