Pellegrinon l’editore: 80 anni e 600 volumi di amore per le vette e la gente agordina
La promessa di smettere fatta alla moglie già rinviata.
«Peccato non aver studiato di più, mi avrebbe fatto bene»
AGORDO. «Tutti gli uomini si costruiscono una storia, e poi diventano quella storia. La grandezza tuttavia non si misura dalla bellezza della storia, ma dal rispettarla in ogni dettaglio per tutta la vita».
Bepi Pellegrinon, seduto comodamente sul divano di casa sua, le pile di libri che si innalzano da terra, le vetrine che non si chiudono tanto sono piene di carte, annuisce a questa frase tratta dal libro di Gioacchino Criaco “Il custode delle parole” (Feltrinelli) ambientato in Calabria. «Sì, mi ci ritrovo». Anche lui è un custode delle parole; per l’Agordino, e non solo, forse è il custode delle parole. Lo è sempre stato, già da prima che nel 1971 nascesse la sua Nuovi Sentieri editore che in 51 anni ha stampato circa 600 libri (di alcuni è pure autore), prima ancora che la sua biblioteca-archivio assumesse l’attualee dimensione data dagli oltre 80 mila volumi presenti. Mille per ognuno degli anni che compie oggi.
«Mi aveva promesso», rivela la moglie Lucina Zanvit da uno sgabello su uno sfondo di piatti dipinti, «che con il compleanno avrebbe chiuso l’attività. Adesso mi ha detto che andrà avanti fino a fine anno. Poi basta, Bepi, però».
Fa sì con la testa, ma con quell’espressione sorniona che in realtà dice: «Insomma, vedremo. Sai, quando Lucina è andata sul poggiolo, lei è la parte più bella della mia vita. Mi sono realizzato nel confronto con lei. È stata fondamentale, sempre presente e partecipe. Ci vogliamo sempre più bene. Poi certo ha sposato me e ha sposato anche tutto il resto».
Una storia, cioè, di curiosità per le parole, per la loro origine, per le persone che le pronunciano o che ne vengono tratteggiate, per le vicende che raccontano. E poi una storia spesa a scriverle, quelle parole, fissarle, tramandarle, pubblicarle. Incessantemente.
«La sua arma», diceva di lui Giovanni Padovani, per tanti anni direttore della rivista la Giovane Montagna che lo avrebbe ben visto come personaggio dei Tre Moschettieri di Dumas», non è la spada, ma l’azione».
A ottant’anni ha un po’ rallentato, come sostiene lui, ma gli impegni non mancano. «Bella la manifestazione che abbiamo fatto alla Baita dei Cacciatori, oggi ero dagli Antiga, il 9 devo andare a Lendinara e poi anche a Como. Ieri invece ero a Bolzano».
Nel capoluogo altoatesino era andato a 15 anni proprio seguendo il profumo di una parola. «Avevo letto “I monti pallidi” di Carlo Felice Wolff e avevo trovato più volte la parola “fol” che più tardi avrei capito essere legata all’attività di lavorazione della lana, ma che allora per me era semplicemente il nome di una località di Falcade, il mio paese. Scrissi a Wolff, che mi rispose nonostante Augusto Murer avesse nutrito poche speranze, visto che a lui non aveva dato corda. E così, quando la pro loco di Falcade organizzò una gita a Bolzano, andai a trovarlo e stetti con lui una mattina».
Dev’esserci stato qualcosa di ammaliante nelle parole che l’adolescente Bepi Pellegrinon, figlio di un muratore (già carabiniere) emigrante in Germania, Svizzera e Venezuela e della titolare dell’osteria a Col de Rif, nel centro storico di Falcade, usava per cercare la relazione con le personalità che lo incuriosivano e che poi gli aprivano le porte.
«Io non ho mai detto da dove venivo, quale fosse la mia origine sociale», se la ride orgoglioso di questo suo coraggio, «sono sempre andato. Rimpianti? Sì, quello di non aver studiato oltre la terza media perché avrebbe fatto bene al mio intelletto. Aveva ragione la signorina Anna Deferrari, preside dell’istituto Lumen, con cui mi beccai perché non amavo il latino».
Pellegrinon i suoi formatori voleva sceglierseli: Augusto Murer, vent’anni più vecchio, che lo accolse nel suo studio, i maestri Egisto Da Rif e Silvio De Biasio che lo guidarono al primo avvicinamento con la cultura e la storia locale.
«De Biasio era ormai in pensione», racconta, «ma mi aveva preso in simpatia. Frequentavo la sua casa e parlavamo di storia e personaggi locali. Mi portò a Carfón, paese natale di Valerio Da Pos, sul quale a 15 anni scrissi il mio primo libretto che andai a stampare in 110 copie a Belluno».
Nel capoluogo frequentò poi la biblioteca civica dove conobbe don Ferdinando Tamis, Giovanni Fabbiani e Fiorello Zangrando. «Il bibliotecario Ruggero Giacomini mi faceva vedere delle cose senza che io chiedessi nulla».
Fra queste anche “Alpinismo eroico” di Emilio Comici. «Una lettura incredibile che mi aprì un altro mondo. Mi venne voglia di arrampicare e così ho dedicato dieci anni della mia vita all’alpinismo, iniziando con Giorgio Ronchi, ma andando anche da solo. Ero uno dei migliori in Italia: Panini di Modena mi aveva inserito fra le figurine assieme a quelle di Walter Bonatti, Cesare Maestri e Carlo Mauri. Ho frequentato i più forti alpinisti europei ed ero fra i corrispondenti della rivista di Toni Hiebeler».
Arrampica con Redaelli, Sorgato, Aiazzi, Maestri, Barbier e anche con Daisy Voog la prima donna a scalare la nord dell’Eiger. E molti altri. E lavorare? «Mah», sorride, «facevo un po’ la guida alpinistica abusiva: mi pagavano. Diventare guida ufficiale? No, io sono un uomo libero».
Libero da chiese e ideologie, aspetto che non gli ha negato l’amicizia con tanti uomini religiosi e la partecipazione alla storia del partito socialista.
«Quando dovevamo sposarci», racconta Lucina, «il prete di Laste, il mio paese, era rimasto perplesso del fatto che Bepi non volesse fare i corsi prematrimoniali. Si era perciò sentito con il confratello di Falcade, che lo aveva rassicurato dicendogli che era semplicemente fatto così».
Sulle Torri del Sella riuscì poi a farsi dispensare da messe e vespri da don Igino Serafini che era rimasto penzoloni e lo pregava: «Bepin, tira». «Mi piacerebbe poter credere», dice del suo rapporto con la religione, «ma non ce la faccio. C’è qualcosa che non mi convince. Tuttavia, sono onorato che il patriarca di Venezia, Albino Luciani, mi abbia scritto tre lettere personali».
Nel confronto con l’altro da sé si è sempre esaltato. «A me piace la diversità fra le persone e ho imparato che non sempre quello che tu pensi è giusto. Io, per esempio, sono cresciuto nell’ambiente formatosi nella Resistenza, i miei amici erano lì. Però ho sempre voluto cercare di capire anche le ragioni degli altri».
Dice che la politica, altra sua grande passione che lo ha visto eletto tre volte come consigliere provinciale, due come sindaco di Falcade (1990-1999) e per trent’anni in consiglio comunale, lui non l’ha mai intesa come ideologia, ma come «un sistema per venire incontro alla gente». «Nessuno verrà più eletto sindaco con mille e un voto. Io conoscevo tutto di tutti e parlavo con tutti, avevo un rapporto unico con i cittadini che capivano che io cercavo di fare tutto quello che si poteva fare».
Su questa facilità di rapporti fece leva Oscar Tamari, l’editore di Bologna dal quale Pellegrinon stampava i suoi scritti, per fargli iniziare l’attività editoriale. «Nel 1971 alla Stanga»,racconta Bepi, «assieme a Piero Rossi, Augusto Murer e Bepi Mazzotti, mi disse che per me non vedeva altra soluzione che quella dell’editore.
Poi Piero Rossi coniò il nome “Nuovi Sentieri” e così, negli anni in cui nasceva anche il Circolo culturale Val Biois, ho iniziato a percorrerli». «Cosa avrei voluto fare nella vita prima di quell’incontro?», si chiede, «quello che poi ho fatto. Voléi me gòde (tradurlo con “volevo divertirmi” è riduttivo, ndr)».
Li sta ancora seguendo quei sentieri, confermando quanto, tanti anni fa, sottolineò l’avvocato Nello Ronchi e cioè che la sua impresa «è riuscita almeno là dove si proponeva di dimostrare che il pensiero umano, oltre il teorico, è universale solo quando porti, e non tolga, contributo al tentativo - purtroppo di pochi - di abbattere barriere, dogane e confini».
«Proprio in questi giorni», conclude Bepi, « ho iniziato a catalogare i miei libri, poi procederò con i documenti e le opere d’arte. Nel frattempo l’amico Silvio Antiga della tipografia dove ho stampato tanti dei miei volumi, sta lavorando a un catalogo ragionato. Spero che il Comune di Falcade prenda al volo la possibilità di creare un “Archivio storico delle Dolomiti”. Ho richieste anche da altri luoghi, ma non potrei mai tradire il mio paese. Per la casa editrice, vedremo. A me piacerebbe che continuasse. Qualche interessamento c’è, occorrerà capire se è concreto o meno».
Di certo altre parole chiedono di essere custodite, nuovi sentieri attendono di essere battuti.
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