Val di Zoldo fuori dal tempo culla del film con Paolini
PADOVA. A pochi giorni dall'uscita ufficiale in tutta Italia (giovedì 3 novembre), «La pelle dell'orso», esordio nel cinema di fiction del padovano Marco Segato, tratto dall'omonimo romanzo di Matteo Righetto, è stato presentato in anteprima di fronte ad un pubblico speciale, quello di Feltre e Belluno: non solo perché Leonardo Mason, il giovane protagonista del film (insieme a Marco Paolini), è un feltrino doc, ma anche perché tutto è nato proprio in questi territori che sono diventanti un elemento centrale dell'opera di Segato.
«Mentre scrivevamo la sceneggiatura con Marco Paolini ed Enzo Monteleone, abbiamo visitato molti luoghi, anche più celebri da un punto di vista cinematografico» racconta il regista. «Quando siamo arrivati nelle valli intorno a Forno di Zoldo abbiamo capito che era l’ambientazione perfetta perché questi posti hanno conservato un profilo selvaggio, un aspetto selvatico non ancora devastato dal turismo. Così, per esempio, per le sequenze girate nel paese da cui inizia il viaggio, fisico e spirituale, dei due protagonisti è stata scelta la frazione di Fornesighe (Fornegise in dialetto zoldano) perché nel corso degli anni ha mantenuto l'impianto architettonico originario. Si tratta, infatti, di una zona che non è stata distrutta dagli incendi che scoppiavano con frequenza da queste parti e che, di fatto, hanno portato a sostituire gradualmente le case di legno con quelle di mattoni e cemento. Ci piaceva l'idea di girare in un luogo fuori dal tempo, con le costruzioni ancora in legno».
Se il primo ciak del film è stato battuto a fine maggio in Val Pramper, Pralongo è invece stato scelto come campo base per la troupe composta in buona parte da professionisti veneti. Come del resto le comparse del film quasi tutte originarie della valle. E proprio l'estrazione locale delle comparse ha creato una sorta di cortocircuito di memorie, di calore emotivo che si respira e si avverte nel film.
«Insieme allo scenografo e alla costumista abbiamo svolto un importante lavoro di ricerca» ricorda Segato. «Per questo motivo siamo andati di casa in casa dagli anziani del luogo per chiedere in prestito vestiti, gioielli e foto, facendoci aprile mobili e stanze. Questa ricerca ha funzionato come un "attivatore di memoria" perché le comparse più giovani si sono trovate ad indossare i vestiti dei loro nonni, innescando così un percorso di conoscenza e di trasmissione dei ricorsi tra vecchie e nuove generazioni».
E qualcuno si è anche commosso. «È vero. La proprietaria del Bar Belvedere di Fornasighe (che nel film si chiama Bar Posta) all'inizio non voleva che girassimo all'interno del locale, perché aveva paura dello stravolgimento che la troupe avrebbe potuto portare. Poi quando ha visto il film è stata felicissima di come il suo spazio era stato fotografato e ripreso e si è lasciata sfuggire qualche lacrima di gioia».
Una compenetrazione tra film e ambientazione che Segato ha sentito fortissima sin dall'inizio: «Mentre scrivevamo, visitavamo i luoghi dando così vita a un percorso creativo che si è alimentato reciprocamente, secondo un approccio che appartiene più al documentario che alla fiction».
E, alla fine, è arrivato anche l'orso, "el diaol" che terrorizza la valle e che Marco Paolini/Piero Sieff promette di uccidere in un impeto di orgoglio. Anzi gli orsi, visto che sul set gli animali erano due: quello più anziano e mansueto - dal lungo curriculum cinematografico e pubblicitario - ha affrontato gran parte delle scene, mentre un esemplare più giovane e più feroce è stato utilizzato soprattutto per i primi piani. Entrambi addestrati da Zoltan, un ungherese che ha fondato nei dintorni di Budapest una riserva naturale (Orkai Center) nella quale gli animali selvatici (anche lupi) vengono preparati ad affrontare set cinematografici (l'orso più vecchio aveva appena finito di "girare" «Dracula» di Dario Argento) o riprese documentaristiche.
Anche per la presenza degli animali (non solo orsi, ma anche cervi, capre, vacche, corvi e carcasse preparate da un tassidermista), «La pelle dell'orso» si è rivelato uno dei progetti più articolati e complessi affrontato dalla JoleFilm di Francesco Bonsembiante, sia a livello produttivo che scenografico, con l'impegno al rispetto rigoroso delle ambientazioni anni '50 e di ciò che questi luoghi rappresentano per le comunità che ci vivono.
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