Viaggio a Plostine, da 150 anni enclave bellunese
PLOSTINE. L’autostrada Zagabria – Belgrado, che qualcuno un tempo aveva ribattezzato “autostrada della pace” (come stride ricordarlo oggi!), si lascia a Kutina, nella Slavonia centrale, per inoltrarsi tra colline dal profilo dolce e villaggi di piccole case dal tetto spiovente. Alcune di esse sono ancora distrutte o danneggiate dai colpi di artiglieria serbi o dalla successiva rappresaglia croata. Gran parte di quelle abitate dai croati sono state ricostruite, quelle dei serbi no.
O meglio solo quelle di chi ha avuto il coraggio di ritornare e non si era schierato con le milizie serbe che avevano occupato la Krajina seminando morte e distruzione. Le tracce del conflitto che un quarto di secolo fa sconvolse e mandò in frantumi la Jugoslavia di Tito sono ancora evidenti e frequenti lungo il percorso.
Si passa da Lipik, il centro termale gemellato con Abano Terme (dopo che gli aponensi hanno regalato la ricostruzione di una scuola), e poi da Pakrac, dove furono sparati i primi colpi della guerra che costarono la vita, in un’imboscata, a due poliziotti croati.
Ma ecco Plostine! La minuscola “capitale” dei bellunesi di Slavonia, quelli arrivati nel 1876 quando questa terra era ancora sotto il dominio asburgico. Sembra un villaggio da cartone animato con quelle case formato Heidi disseminate lungo la strada principale e sulle amene colline circostanti. Case modeste, alcune in manutenzione, ma tutte dignitose e carine.
Anton Bruneta è il presidente della comunità degli italiani “Libertà”, discendente di uno dei primi nuclei familiari bellunesi che quasi 150 anni fa si stabilirono a Plostine.
Oggi nel piccolo paesino della Slavonia (che conta solo 300 abitanti) e nei suoi dintorni sono circa 700 gli iscritti a questo circolo tricolore, che fa parte della galassia delle Comunità italiane della Croazia. Ma sono almeno duemila gli “italiani” che hanno preferito ufficialmente restare croati, pur parlando o capendo il dialetto parlato da Anton e dagli altri. Una parlata arcaica, con alcuni termini oggi spariti dal gergo corrente, sia esso il dialetto veneto o quello bellunese. Un relitto linguistico prezioso, da studiare, dove ad esempio novanta si pronuncia “nonanta”.
Questa piccola comunità è sopravvissuta al vento di tre guerre e l’ultima gli era praticamente scoppiata in casa. La fortuna di questa brava gente è di essere stata colpita solo incidentalmente dal conflitto perché nessuno in fondo ce l’aveva con loro, né i serbi né i croati, dato che i bellunesi, come del resto le piccole comunità ungheresi della zona, sono sempre andate d’accordo con tutti. Pensando al lavoro più che alle dispute etniche.
Bruneta mostra con orgoglio la sede del circolo, dove si trovano un’osteria, un vecchio bowling meccanico, la sala riunioni con la bandiera italiana e la foresteria, le cui stanze attendono qualche nuovo contributo dell’Unione degli Italiani per essere completate. Serviranno per i frequenti interscambi culturali e di amicizia con i bellunesi di Belluno. Che tuttora pensano a loro in tanti modi, a livello di istituzioni e di associazioni.
«Con Belluno, Ponte nelle Alpi, Longarone, Soverzene e altri centri della provincia abbiamo rapporti frequenti» dice Bruneta. «Un ponte creato circa quarant’anni fa e approfondito negli anni 90. Molti dei nostri sono tornati dai parenti a Belluno durante la guerra, alcuni non sono più tornati avendo trovato lavoro lassù».
Già, la guerra. Anche i bellunesi di Plostine e dintorni vi hanno pagato un tributo pesante, perdendo venti giovani. Nel cimitero riposano accanto a tante lapidi dai nomi familiari: Bortoluzzi, De Nardi, Feltrin, De Zolt, Brunetta.
La memoria di questa comunità è conservata in un piccolo museo, dove le vecchie foto in bianco e nero sono un pugno nello stomaco emotivo perché testimoniano con quanta dedizione questa comunità abbia difeso per quasi 150 anni la propria identità e conservato le proprie tradizioni ancestrali. Nel museo, il cui soffitto purtroppo è un colabrodo, sono custoditi anche vecchi attrezzi agricoli. Qui si mangia tuttora il salame di cavallo.
«I nostri avi qui trovarono i cavalli allo stato brado ed era facile approvvigionarsi di carne buona. I bovini non c’erano. I primi emigrati dovettero disboscare aree vastissime per dare spazio alle case ai campi da coltivare».
«Noi ci sentiamo molto legati ai nostri paesi di origine» confessa Anton Bruneta «ma qui stiamo bene e non pensiamo affatto di lasciare questi luoghi. In fondo credo che la nostra presenza sia più utile qui, perché teniamo viva una memoria importante. Per i bellunesi siamo lo specchio del loro passato, fatto di lavoro e di sacrificio».
Nelle vicinanza di Plostine sta per sorgere una piccola area ricreativa. È stata ricavata in un bosco di faggi e ospiterà anche i giochi popolari delle “olimpiadi” che Bruneta e i suoi amici organizzano ogni anno. La comunità chiede fondi anche per organizzare corsi di italiano perché il dialetto non basta più. Il legame con la madre patria si rinsalda attraverso un intensificarsi di iniziative di interscambio e la lingua è uno strumento importante. Bruneta si aspetta un aiuto concreto. In passato lo ha chiesto anche ai presidenti della Repubblica italiani che ha incontrato a Pola o a Fiume.
«Siamo la comunità italiana più lontana della Croazia, una delle poche in Slavonia» conclude Bruneta «vogliamo solo che l’Italia ci sia sempre vicina e che ci sostenga nel far sopravvivere una cultura e una storia che sembra uscita da una favola ma che qui per fortuna è ancora una realtà viva e vissuta».
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