La porta si aprì e lui sentì profumo di gelsomino
L’insegna sbiadita la notavano in pochi. Sporgeva appena, la scritta “cinema”, quasi a non voler farsi notare troppo in quell’edificio che il sole aveva scrostato. Era l’ultimo pezzo di paese, prima di imboccare la stradina da cui poi si scendeva al mare.
Con il portone ben chiuso e le inferriate abbassate, le catene, i lucchetti, le assi di legno e l’ultima programmazione ingiallita ancora nella bacheca opaca, il vecchio cinema era silenziosamente sospeso nel tempo. Così come silenziosamente era stato chiuso nell’estate del 1982, quando morì il suo proprietario: l’Italia vinceva i mondiali, Spadolini salvava il Governo, i Rolling Stones suonavano a Torino e l’ultimo film proiettato nella piccola sala era “Blade Runner”.
Non aveva più riaperto; nessuno scoprì mai il perché. Lusia, l’estetista, sosteneva che era a causa delle liti tra gli eredi. Altri ancora avevano sentito, al bar Italia, che era stato acquisito da un milionario che voleva farne un casinò, ma le leggi erano cambiate. Luigina invece era sicura che un suo vecchio dipendente volesse aprire lì la sua pasticceria per farle concorrenza. Il parroco giurava sul suo crocefisso che nessuno aveva confessato nulla, e comunque, anche se fosse, non avrebbe mai potuto dirlo.
Naturalmente, nessuna di queste supposizioni era vera.
A Mario ascoltare le fantasie dei suoi compaesani era sempre piaciuto tanto quanto passare inosservato. Un po’ come l’insegna del suo cinema. Per anni lo avevano scambiato per il bigliettaio, per l’uomo dei popcorn o quello che faceva le pulizie a fine serata. Mario in effetti era tutte queste cose insieme. E ne era anche il proprietario: aveva rilevato lui il cinema, una volta morto il vecchio Abramo.
Magro e lunghissimo, la barba sempre rasata sul viso spigoloso e due occhi buoni e grigi, Mario aveva compiuto settant’otto anni il 2 giugno: ne aveva tanti quanti la Repubblica.
Mario aveva un rituale, che era anche il suo segreto
Mario aveva un rituale, che era anche il suo segreto. Ogni sabato pomeriggio, quando il resto del paese riposava o era indaffarato a chiacchierare, fare manicure, preparare bigné o confessare, quel piccolo mondo per poche ore riprendeva a vivere, solo per lui.
La piccola entrata sul retro era sempre stata nascosta.
Mario entrava in sala, controllava che fosse tutto in ordine e poi saliva fino alla cabina di proiezione. Lì poteva scegliere la vita che voleva.
Per qualche ora era un pazzo che in un manicomio portava l’entusiasmo, un reduce del Vietnam che perdeva il lume della ragione, un astronauta nello spazio, un giornalista di guerra.
Ma i sabati migliori erano quelli in cui si guardavano i grandi film in bianco e nero. Gli piacevano quelli con Grace Kelly, ma quel sabato decise che il suo appuntamento sarebbe stato con Ingrid Bergman.
Lo avevano visto tante volte insieme, quel film, lui e Teresa, tanti anni prima, quando erano solo due ragazzi. E proprio da quella posizione privilegiata: la cabina di proiezione. Si stringevano la mano quando Ingrid Bergman, che in quella pellicola si chiamava Ilsa, vestita in un raffinato tailleur bianco, si appoggia al pianoforte di Sam, mentre tutto attorno a loro il locale parla, ordina cocktail e discute in quell’incrocio di destini che era “Casablanca”.
«Suonala, Sam». «Non so se la ricordo, Miss. Sono un po’ arrugginito». Ma poi Sam, pelle nera come l’ebano e voce profonda e ruvida dei grandi jazzisti, nel suo completo con papillon, inizia a suonare.
«Cantala, Sam».
Ilsa aveva ragione: a volte bisogna chiamarlo il destino, bisogna alzare un po’ la voce con lui, invitarlo e non averne paura. Poi arriva Rick, un elegante e rude Humphrey Bogart. «Sam, ti ho detto di non suonarla più», sbotta Rick irritato.
Eccolo, quel momento. Quando gli occhi di Rick incontrano quelli umidi di Ilsa. Per Mario e Teresa questo momento era il migliore. C’era rabbia e c’era tensione, repulsione e attrazione, in un riflesso di sguardi oltre i quali tutto poteva da un momento all’altro crollare, bruciare o esplodere.
L’aveva conosciuta in quel cinema, Teresa. Ci andava con le amiche il sabato, durante i tre mesi di villeggiatura che passava al mare con la sua famiglia. Erano i primi anni Sessanta e lui lavorava al cinema per comprarsi la Vespa.
Lui aveva sedici anni, lei quindici.
Quando la vide la prima volta, Teresa non aveva ancora un nome per lui e non l’avrebbe avuto almeno per altri quattro sabati, fino a quando non prese coraggio e glielo chiese. Non riuscì a strappare il suo biglietto: rimase immobile, le amiche dietro di lei bisbigliavano divertite. Teresa allora gli fece il sorriso più bello che avesse mai visto e in quel momento sentì il suo profumo: era gelsomino.
Gli ci vollero ben più di quattro sabati per invitarla a mangiare insieme un gelato. Parlarono della scuola, di libri, dei film e del futuro. Lei voleva fare la ballerina, lui voleva fare il fotografo e girare il mondo, come James Stewart in “La finestra sul cortile”. Il primo bacio glielo diede durante “Casablanca”. Il giorno dopo lei ripartì e non la vide fino all’estate successiva.
In un solo anno le sue gambe erano diventate più lunghe e affusolate e c’era qualcosa di diverso in lei. E anche in lui: durante l’inverno le spalle si erano fatte più possenti e aveva iniziato a radersi la barba.
Avevano preso l’abitudine di vedersi in spiaggia
Avevano preso l’abitudine di vedersi in spiaggia. Nonostante le file di ombrelloni che li separavano, tra loro bastava uno sguardo per capire che era arrivato il momento di sfilarsi dai genitori, dalle zie e i numerosi cugini di lei. Si immergevano nel mare, nuotavano a casaccio e a un certo punto iniziavano ad allontanarsi nella stessa direzione.
C’era un punto poco accessibile in cui gli scogli diventavano rocce e il mare aveva scavato una piccola grotta. Lì potevano stare insieme, confidarsi tutto, avvicinandosi ogni volta un po’ di più.
Fu in quella grotta, dove arrivavano gli spruzzi delle onde, che impararono ad amarsi. Prima piano, in modo impacciato, poi sempre più forte, fino a che i sospiri coprivano ogni altro rumore in un groviglio confuso di braccia e di gambe, dove ogni tocco era nuovo, strano e straordinario.
Alla fine dell’estate il padre di Teresa fu trasferito per lavoro in Svizzera e lei non tornò più in quel posto di mare.
La vita di Mario si cristallizzò, fermandosi per sempre in quei fotogrammi e in quella breve estate sulle note di “AS time goes by».
Ma il tempo, proprio come nella canzone, alla fine passò.
L’anno che prese il diploma Mario acquistò una macchina fotografica, ma non girò mai il mondo: il lavoro al cinema gli piaceva. Aveva avuto altre donne, ma non riuscì ad amare nessuna come quella ragazzina dalla pelle ambrata e i capelli lunghi che sapeva di gelsomino.
Adesso che era vecchio, adesso che i ricordi si mescolavano al presente e non c’era futuro, Mario sapeva che poteva incontrare Teresa ogni volta che voleva: bastava oltrepassare quella piccola porta e accendere il proiettore.
Teresa. Sempre lei, ancora lei, ovunque lei. Tutto il resto poteva crollare, bruciare o esplodere.
In quell’attimo la porta della cabina di proiezione si aprì.
C’era profumo di gelsomino.
L’autrice del racconto
Anna Martellato è nata nel 1981 a Verona, dove vive. È riuscita a fare della sua passione, che è raccontare, il suo mestiere: è una giornalista professionista e una project generator. Oltre gestire l’ufficio stampa di aziende ed enti, aiuta le imprenditrici e le libere professioniste a esprimere il loro potenziale attraverso progetti giornalistici e di storytelling che le rendono uniche.
È stata allieva della scuola Palomar, grazie alla quale ha concepito il suo primo romanzo “La prima ora del giorno” edito da Giunti Editore nel 2018. Nel 2020 è uscito, sempre con Giunti, il suo secondo romanzo “Il nido delle cicale”.
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi