La storia di Enzo Tazzara, deportato nel campo di Kraków-Płaszów

Giornata della memoria. La figlia Elga: «In famiglia ci ha raccontato la sua storia dopo ben 25 anni e ricordava che non lo chiamavano mai per nome, ma con quel “numero”»

Francesco Dal Mas
Enzo Tazzara fu deportato nel campo di Kraków-Płaszów
Enzo Tazzara fu deportato nel campo di Kraków-Płaszów

“47293”. Un numero che Elga Tazzara non dimenticherà mai. Era quello assegnato a suo padre Enzo nel campo di concentramento di Kraków-Płaszów, in Polonia.

«In famiglia ci ha raccontato la sua storia dopo ben 25 anni e ricordava che non lo chiamavano mai per nome, ma con quel “numero”. Una storia drammatica, da cui papà è riuscito a salvarsi. E che lui ci ha partecipato senza esprimere, una sola volta, una parola d’odio per i carcerieri».

Enzo Tazzara è nato a Belluno il 15 agosto 1923, è morto all’età di 95 anni il 9 gennaio 2019. La moglie, Antonietta Tavi, l’ha raggiunto poche settimane dopo. Tre le figlie: Elga, Cristina e Barbara.

Suo padre come è finito in Polonia?

«A 19 anni fu avviato alla leva come aviere, prima ad Aviano, poi a Gorizia, quindi a Padova. Il 30 agosto 1943 fu destinato a un centro di raccolta a Roma. Da qui, in seguito, venne trasferito in Albania, a Tirana, con un “aereo di cartone”, come lo definiva papà. L’8 settembre, giorno dell’Armistizio, a Tirana gli ufficiali fuggirono, la truppa venne lasciata allo sbando. Ai soldati fu chiesto se volevano aderire alla Repubblica di Salò. Enzo non aderì e i tedeschi lo fecero prigioniero. Con un’autocolonna di camion finì in Jugoslavia e da lì i prigionieri vennero caricati su un convoglio ferroviario diretto in Polonia, attraverso l’Ungheria. Un viaggio bestiale».

Nel campo di Kraków-Płaszów come venne immatricolato?

«Nello Stalag XXA. Da quel momento, ammetteva, non ero più una persona ma un numero. E il suo numero era 47293. Dopo qualche tempo, però, venne portato in Alta Slesia dove fu avviato a un lavoro coatto in una miniera di carbone a 500 metri di profondità. Un lavoro massacrante, con bastonate, come lui raccontava, a ogni tentativo di protesta. Violenza e fame nera. “Dalla fame”, raccontava papà, “non stavamo neanche in piedi, dovevamo trascinarci per terra per arrivare alla nostra baracca la sera”».

Perché suo padre decise di darsi una ferita?

«Era così dura la situazione, che mio padre tentò di procurarsi una ferita per avere un po’ di tregua. E siccome lui era addetto ai carri di carbone, sotto terra, che dovevano essere spinti a mano, mise una mano sotto uno di questi carrelli e si ferì in maniera seria. Tanto che in infermeria volevano amputargli la mano, ma poi cambiarono idea. La ferita si infettò e lui venne ricoverato in una baracca di malati di tubercolosi; su 20 pazienti, sopravvissero in 8».

Vostro papà per anni ha trattenuto per sé questa drammatica esperienza...

«Glielo chiesi io, ero adolescente, di conoscere la storia. Quando Enzo era in vena, ci mettevamo intorno al lavoro – papà, mamma, io e le altre due sorelle – e lui cominciava a raccontare. E noi ascoltavamo in religioso silenzio, con le lacrime agli occhi. Rammentava che al mattino andavano dai lavatoi esterni a darsi una sciacquata e trovavano i cadaveri dei prigionieri morti nella notte. Ci diceva che la sera speravano di non svegliarsi al mattino, quindi di morire almeno senza soffrire. Una volta era stato scelto con altri nove per essere fucilato per rappresaglia, ma era solo un’azione dimostrativa. Una volta si era attardato in miniera e siccome c’era il coprifuoco nel campo è rimasto all’esterno e doveva raggiungere la sua baracca. Non riusciva a correre e si è trascinato sul terreno. Non l’hanno visto altrimenti sarebbe stato mitragliato».

Come riuscì a salvarsi?

«Lo spiegava lui stesso: prima di partire militare, aveva fatto il pugile dilettante e così si era rinforzato nel fisico. Lo Stalag XXA venne liberato dall’Armata Rossa e il 27 marzo del 1945 papà venne rimpatriato e ricoverato all’ospedale militare di Goria Minore (Varese) dove rimase qualche tempo per dargli modo di riprendersi un po’ dalle sofferenze e dalla denutrizione prima di tornare a casa».

Come lo ricorderà il papà questo 27 gennaio?

«Nei suoi racconti, non ci ha mai trasmesso odio per i persecutori. Così lo ricorderemo. Ci ha lasciato valori positivi di giustizia, accoglienza, solidarietà, senso del dovere. Ci ha insegnato il rispetto per le persone, l’amore per la vita. E anche un sano senso dell’umorismo. Ecco, il suo riscatto è stato questo: non cedere all’odio, ma continuare la vita, per quanto possibile, in maniera positiva. Appena rientrato, papà si era iscritto al Partito Comunista e ci rimase finché non cambiò nome».

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