In missione tra i poveri della Terra: «Lavoro per colmare l’ingiustizia»
Giovanni Campostrini, veneziano di 28 anni, opera con Medici Senza Frontiere ed è appena rientrato dal Venezuela: «Ho un fortissimo legame con la mia città, ma non vedo l’ora di ripartire»
È nato a Venezia 28 anni fa e nonostante ci passi poco tempo, a causa di un lavoro che lo porta distante, ha sempre mantenuto un forte legame identitario con la sua città. Ed è contento di poterla considerare casa. Giovanni Campostrini è un operatore umanitario, si occupa di logistica e va spesso in missione dall’altra parte del mondo. L’ultima, da cui è tornato a luglio, è stata in Venezuela con Medici Senza Frontiere.
Un passo indietro: dopo una laurea in diplomazia culturale, ha fatto diverse cose, tra cui uno stage a Los Angeles con il ministero degli Esteri e tanti altri lavori in azienda. Poi ha deciso di avvicinarsi a un ambito che lo attirava da sempre, quello umanitario.
Dopo la pandemia è partito alla volta di un campo profughi in Grecia, come volontario. Sarebbe dovuto rimanere solo un paio di mesi, invece ci ha passato quasi due anni: è in quel momento che ha cominciato a lavorare come logista per una organizzazione norvegese.
Il campo della logistica ha migliaia di sfaccettature, ci spiega, a seconda di ambito e contesto in cui viene applicata: il lavoro fatto tra i migranti in Grecia era molto diverso da quello che si è trovato a fare qualche tempo dopo quando, con lo scoppio della guerra in Ucraina, è partito alla volta della Polonia per assistere e distribuire vestiti a chi scappava dal conflitto.
Infine, l’esperienza con Medici Senza Frontiere (Msf) che l’ha portato per oltre un anno in Venezuela.
«Il progetto si concentrava in due centri di salute in comunità indigene. Eravamo nel delta di un fiume, nel mezzo della foresta, distantissimi dai centri urbani: il nostro ufficio centrale era a cinque ore di barca. Per tre settimane al mese vivevamo nella comunità», spiega Campostrini.
Per mesi la squadra di Msf (oltre al lavoro dei medici) si è occupata della manutenzione negli ospedali, per migliorare la rete idrica e di fognatura, ma anche per creare un sistema di gestione dei rifiuti.
«Un grosso problema era la tubercolosi. Per poterla curare e per fare prevenzione bisognava cambiare totalmente il flusso di pazienti all’interno dell’ospedale. Abbiamo creato un sistema completamente nuovo, funzionale per tutte le malattie altamente trasmissibili: concretamente questo significava buttare giù pareti, creare nuove divisioni, mettere delle nuove finestre in modo da avere più circolazione dell’aria,...», racconta.
Con Campostrini non abbiamo parlato solo delle sue missioni, ma anche di cosa voglia dire tornare a casa. Soprattutto dopo essere stato così a lungo in contesti molto diversi da quelli abituali: «Ho la fortuna di avere un posto che chiamo casa, che è Venezia, con cui ho un forte legame identitario. In un certo modo riesco a scindere queste vite, pur continuando a viverle assieme. Quando parto mi porto sempre con me quello che sono e alla fine, dopo tanto tempo che sono via, ho sempre voglia di tornare a casa. Non ho ancora mai avuto uno shock culturale, cosa che tanti hanno ed è normalissimo che accada. La cosa che penso sempre io è che sia un’ingiustizia che così tante persone non possano avere le possibilità che abbiamo noi, soprattutto dal punto di vista sanitario. Però non penso che sia sbagliato come vivo io a Venezia, penso piuttosto che sia ingiusto come sono costretti a vivere gli altri. La cosa giusta da fare è cercare di colmare questo divario», conclude.
In questi giorni si sta preparando a ripartire. Non sa ancora la destinazione, ma le valige sono sempre a portata di mano: Venezia gli era mancata, ma è arrivato il momento di un’altra missione.
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