Lega e Fratelli d’Italia ai ferri corti in Veneto
Voci di nuovi possibili transfughi dopo il cambio di casacca di Andreoli e Rizzotto. Ma Villanova e Marcato avvertono: altri passaggi di consiglieri e sarà rottura

Fratelli coltelli in consiglio regionale. L’addio alla Lega di Marco Andreoli e Silvia Rizzotto, reclutati dalla destra, riaccende lo scontro nella coalizione e già si profilano nuovi cambi di casacca.
Così Roberto “Bulldog” Marcato inveisce e minaccia: «Questo è il Parlamento dei veneti, è suolo sacro, ulteriori passaggi dal nostro partito a FdI o Forza Italia segnerebbero la morte dell’alleanza, sia qui che alle prossime elezioni».
Più felpato nei toni, ma inequivocabile nelle conclusioni, lo speaker di maggioranza: «Gli ultimi giorni ci hanno fatto capire tante cose utili per il futuro. Dobbiamo essere pronti a ogni scenario, sempre con la schiena dritta e senza alcuna paura, al fianco del governatore più amato d’Italia, che continuerà a guidarci, e del nostro segretario Stefani», la reazione di Alberto Villanova.
Convinto che «non saranno un paio di tradimenti a indebolirci. Abbiamo un esercito di sindaci, amministratori locali, giovani, persone che ogni giorno condividono le nostre battaglie e lavorano per il bene della comunità».
Evocato, Luca Zaia invita a serrare le fila: «Duri ai banchi! Ne ho viste di meglio e ne ho vissute di peggio. Pancia a terra!», il post inviato al gruppo consiliare, dove cresce lo sdegno per le modalità dell’operazione, definita dai più «una manovra ostile, pianificata nei dettagli con l’intento di provocarci».
L’allusione corre alla tempistica: dopo mesi di trattative sottobanco (puntualmente smentite dalle parti), lo strappo si è consumato all’indomani del niet della Corte Costituzionale al terzo mandato e al conseguente epilogo di una lunga stagione a Palazzo Balbi: «Quasi uno sberleffo e pensare che a novembre, in segno di leale collaborazione, abbiamo acconsentito a cedere loro la vicepresidenza dell’assemblea», l’amaro commento nel Carroccio.
Né le fibrillazioni sembrano ultimate, anzi, sintomi di malessere arrivano da altri esponenti di maggioranza. È il caso di Fabiano Barbisan, il veterano privato del diritto al voto al congresso, e di Simona Bisaglia che in Polesine sconta lo strapotere dell’asse Corazzari-Cestari. Ancora, il veronese Enrico Corsi, sempre più ai margini del progetto, e l’autonomista Tomas Piccinini da tempo in dissenso con i vertici nazionali.
Non solo manovre interne. Al Ferro-Fini, Andreoli e Rizzotto presiedono altrettante commissioni, detenendo un ruolo importante nell’esame delle proposte legislative: il regolamento non consente di sfiduciarli perciò Villanova li ha invitati a dimettersi dall’incarico, senza successo.
«Il criterio di valutazione di un mandato istituzionale è la competenza, non il colore d’appartenenza, e mi risulta che entrambi i consiglieri abbiano sempre lavorato con impegno e capacità, mai sentite critiche al riguardo. Dimissioni? Non capisco perché, se poi la Lega avanzasse candidature alternative allora ne discuteremmo», replica Lucas Pavanetto, il capogruppo di Fratelli d’Italia.
Che difende i nuovi adepti dall’accusa di trasformismo: «Siamo a fine ciclo e non sappiamo chi sarà il futuro presidente, si tratta di assestamenti naturali. A giudicare i singoli comportamenti, in ogni caso, saranno gli elettori, spero il più presto possibile».
Ovvero? «Trovo assurdo che si ipotizzi una finestra primaverile nel 2026, la legge prevede il voto in autunno, a causa dell’emergenza Covid questa legislatura è già durata otto mesi più del naturale, ora la parola va restituita ai cittadini».
Il dubbio: a incrinare il fronte leghista è il rifiuto del modello salviniano o, più prosaicamente, il timore di essere esclusi dalle prossime liste elettorali? «Rispondo che una squadra di governo non si fa con due soldati e ai detrattori, illusi di ostacolare la nostra traiettoria, segnalo l’entusiasmo con cui la gente si è riversata nei nostri gazebo al grido di Veneto ai veneti», sentenzia Villanova.
Che altro? Vano sollecitare ulteriormente Zaia, che martedì è sceso nella Capitale: «A chiedere soldi per il Veneto».
Tant’è: se il governatore tende a smarcarsi dalle polemiche, c’è chi, viceversa, individua il casus belli in un suo battibecco con il combattivo Luca De Carlo, segretario della destra, a margine del Vinitaly. Fantasie? Nel dubbio, il senatore meloniano porge un «caloroso benvenuto» ai leghisti pentiti e, serafico, esclude ogni volontà di sgarbo all’alleato: «Tranquilli, il sostegno al presidente e alla coalizione non verrà meno, è una promessa e noi siamo gente di parola».
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