Vivere dopo il trapianto di fegato: la storia di Fausto Gobbato
Il padovano si racconta dopo 30 anni dal trapianto: «Non bevo più alcolici in segno di riconoscenza e rispetto alla persona che è morta e mi ha scelto di donare il suo organo»
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Era il 23 febbraio del 1995 quando Fausto Gobbato, padovano classe 1957, è andato di corsa all’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Ad aspettarlo c’era la sua ultima speranza di vita.
«A 36 anni mi sono ammalato di cirrosi epatica culminata con un cancro al fegato chiamato nodulo di Hock. Non potevo bere un bicchiere d’acqua che la pancia mi si gonfiava come un pallone da basket. Stavo lentamente morendo, completamente disidratato e con i polsi che dopo due anni di malattia parevano fuscelli». Un incubo a lieto fine, che Fausto racconta trent’anni dopo.
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È seduto al tavolo della cucina, nella casa dove vive con la moglie Florinda. A due passi abita la sorella Adelina che, assieme al marito e ad Annamaria, terza sorella residente a Montà, lo ha sempre accudito.
L’ultima occasione, questa volta di festa, è stata proprio domenica scorsa, il 23, celebrando la ricorrenza della rinascita con lasagne alla bolognese, polletto allo spiedo e frittelle di Carnevale. «Chi sta bene spesso non si rende conto di quanto sia fortunato», dice commosso il 68enne, nato e cresciuto nel quartiere Natività, «E allora invito tutti a godere della vita ma senza trascurare la salute».
Prima dei problemi di salute
Da ragazzino aveva aiutato come garzone di bottega un elettrauto per poi lavorare, dopo la leva militare, nella stazione di servizio di Padova Ovest, quella in cui una volta c’era il ristorante Mottagrill.
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«Così per quattro anni, facendo le notti. Ricordo turni massacranti», dice, «Poi ho vinto un concorso come dipendente civile dell’esercito e sono entrato prima alla caserma Prandina e poi alla Bussolin. Mi occupavo di ricambi di mezzi corazzati. All’epoca rifornivamo il Nord est».
«Non bevevo neanche acqua»
Ma superati di poco i trent’anni, per Fausto inizia il calvario di ricoveri all’Azienda Ospedale – Università di Padova. «Il mio fegato ha smesso di funzionare e non c’era più molto da fare. Bere acqua mi provocava dei fortissimi attacchi di ascite, e in una occasione ci sono volute tre ore perché mi fossero estratti dall’addome undici chili di liquidi», riavvolge la memoria.
L’importanza della rete familiare
Fausto ha impressa in mente l’estate del ’94, «caldissima». «L’ultima prima del trapianto. Ero ai minimi termini, mi hanno aiutato tanto le mie due sorelle e i loro mariti», continua, «I conoscenti, invece, davanti alla sofferenza si sono in un primo momento allontanati».
A Padova lo seguiva già Patrizia Burra, professoressa associata di Gastroenterologia e responsabile dell’Unità Trapianto Multiviscale al policlinico. È lei che lo ha indirizzato a Milano dove un’operazione extra corporea di diciannove ore lo ha rimesso in piedi.
Prima e dopo il 23 febbraio
«Potevo ingerire, al massimo 900 calorie al giorno, e bere 150-200 centilitri di acqua. Ho pensato spesso di morire ma ora sono un uomo nuovo». Conduce uno stile di vita normale, è tornato a lavoro, con mansioni diverse da quelle del magazzino, e ha creato il calcio a 5 alla società sportiva Nativitas.
«Ho conosciuto Florinda a cui va tutta la mia gratitudine». Fausto ha ritrovato un equilibrio, la solidarietà di colleghi e amici, l’amore della famiglia. «Mi ricordo la prima pastasciutta in bianco, un piatto che mi è sembrato da capogiro, e la titubanza all’idea di potermi finalmente dissetare».
La riconoscenza è un arte
Astemio per scelta e non per indicazioni mediche, Fausto evita l’alcol anche nei dolci. «Per riconoscenza e rispetto della persona che ha perso la vita - credo fosse una ragazzina - e mi ha donato l’organo che tuttora mi tiene in vita», spiega. Nel 2018, dopo due anni da che è andato in pensione, un altro scoglio lo ha messo a dura prova.
«Ho dovuto levare un rene per una seconda diagnosi di tumore scoperta il 13 giugno, il giorno di Sant’Antonio», confessa, «Anche questo intervento è andato bene e sono potuto tornare alla mia quotidianità».
È l’ora di buttare la pastasciutta e Fausto ha solo un’ultima cosa da dire prima di salutarci: «Ricordatevi di essere grati alla vita, sempre».
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