Schiavulli e la guerra: «Viaggio e la racconto per combatterla. Ecco come mi ha cambiata»

Sarà nel panel di domenica alle 10.30. Il modello del crowdfunding

Valeria Pace
Barbara Schiavulli reporter e direttrice di Radio Bullets
Barbara Schiavulli reporter e direttrice di Radio Bullets

TRIESTE Barbara Schiavulli sarà ospite del Link media festival domenica alle 10.30, sul palco converserà con i reporter di guerra Adnan Sarwar e Daniele Bellocchio.

Risponde al telefono da Roma, ma fino a qualche giorno fa era in Sud America, per seguire le elezioni in Venezuela. Nel Paese non è potuta entrare, Maduro non voleva gli occhi di giornalisti sulla consultazione. «Alla fine sono andata in Colombia, sul confine, e da là sono riuscita a raccogliere storie forti. Come quella sulle prostitute venezuelane in Colombia». Non è l’unico viaggio dell’anno: «Ho fatto anche un periodo in Cisgiordania. Quando c’è qualcosa che c’è bisogno di raccontare, che sia l’Afghanistan o qualche altro conflitto, io parto».

Parte per Radio Bullets, la sua testata online?

«Sì, tutti i viaggi che faccio sono sostenuti da chi ci segue con il crowdfunding e la campagna di abbonamento. Non è ancora un modello sostenibile: ho ancora alcune collaborazioni, con la Bbc araba ad esempio. E poi ci sono anche la vendita di libri e gli incontri».

Una vita non facile...

«C’è un punto della vita in cui non riesci più a scrivere per giornali in cui non credi più. La narrazione degli Esteri in Italia è peggiorata tantissimo, sembra che le principali testate mainstream siano a favore della guerra. Questo per me non è giornalismo. Così ho sentito l’esigenza di andare a raccontare la Palestina, dato che si giustificava molto Israele. Prima ero molto focalizzata sull’Afghanistan, di cui ormai quasi nessuno parla in Italia».

Come mai?

«Al giorno d’oggi i giornali si assomigliano tutti, anche quelli locali. Con l’avvento del web la carta stampata avrebbe dovuto virare sull’approfondimento. Non puoi fare 40 pagine di politica che nessuno legge. Se qualcuno mette a me 100 euro nel crowdfunding e non ne mette 1,50 per comprare un giornale, devono sorgere delle domande. Pensi che in una campagna mi sono arrivati 700 euro da uno sconosciuto... Per me è una grande responsabilità ricevere questa fiducia».

La storia più d’impatto che ha seguito?

«L’Afghanistan. Seguo il Paese da 23 anni. Le storie che ho raccontato hanno cambiato anche me. Ho visto abbandonate tutte le persone che conoscevo, tradite dall’Occidente, da noi che ci crediamo sempre più sensibili e protettivi... Queste persone sono state gettate nella peggiore crisi umanitaria al mondo dove c’è il più alto tasso di suicidi femminili. Le donne sono ormai prigioniere nelle loro case. Il mio lavoro è anche quello di cercare di tenere acceso il riflettore su questa crisi. Non riesco a capire come nel mondo si possa accettare che esista un Paese in cui è vietata la musica».

Che responsabilità abbiamo come cittadini?

«Informarci. Non costa nulla e tutto parte da là. Queste crisi sembrano lontane ma hanno un effetto anche su di noi. In Iraq nel 2004 rasero al suolo alcune parti di Falluja, usarono il fosforo bianco e l’uranio impoverito. Sono tornata nel 2020 e ho scoperto che in quel posto un bambino su quattro nasceva deforme. Noi siamo in mezzo tra Ucraina e Palestina, respiriamo la stessa aria. Pensiamo a quello che accadde con Chernobyl...».

Com’è essere una giornalista donna nell’Afghanistan dei talebani?

«Prima del 2001 l’ambiente molto maschilista faceva sì che le giornaliste fossero meno visibili dei colleghi maschi, poi io che ho una mamma di origini caraibiche ho la fortuna di sembrare sempre una del posto. In più essere una donna era l’unico modo per avere accesso alle storie delle donne. Insomma, prima del 2021 magari i potenti non mi stringevano la mano, ma io dovevo solo portare a casa un’intervista. Ora invece i talebani proprio non vogliono parlarci. Sono bambini-soldato a cui è stato detto che le donne sono solo delle incubatrici perché non si distraessero. Anche alcuni imam là sono disperati. Il mio libro “Burqa queen” l’ho scritto per questo: non è possibile che mi arrabbi solo io. Voglio essere contagiosa con questa rabbia. L’Afghanistan è una vergogna anche di questo Paese».V.p.

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