Come stelle, nel buio brillavano lacrime invisibili

Il racconto di oggi scritto dal pordenonese Tullio Avoledo. Voleva poter ricordare quello che era stata e solo lui era in grado di aiutarla. Perché lui aveva visto la sua bellezza. Gliela descrisse come una poesia

Tullio Avoledo
Inside of woman's head improving and becoming brighter
Inside of woman's head improving and becoming brighter

La faccia entrare e poi vada, Adele», disse il cieco. L’infermiera non fece caso al tono sgarbato. L’uomo la sentì brontolare sottovoce, aprire la porta. Poi i passi della visitatrice furono in corridoio, e infine sulla soglia della camera.

«Entra» fece, con quella voce roca e debole che nemmeno lui riconosceva più.

E la donna entrò, muovendosi nel buio della stanza, fra gli oggetti che l’ingombravano, nell’odore di medicinali e sudore.

Si sentì il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva alle spalle di Adele.

Adesso erano soli, nella casa che di colpo sembrò farsi più grande nel silenzio.

«Così tanto tempo…» gracchiò la voce dal letto.

Poi un colpo di tosse, dal fondo dei polmoni.

«Sì. Tanto, davvero. Posso sedermi?»

«Sposta la roba dalla sedia».

La  roba era un vassoio di plastica con su un flacone di pillole, un bicchiere e una bottiglietta d’acqua minerale bevuta a metà.

La donna mise il vassoio sul comò e si sedette.

Il cieco sentì un fruscio come di foglie. La gonna di lei.

«Quanto tempo è passato…? » sussurrò.

«Trent’anni».

«È stato buono con te, il tempo?»

«Più di quanto meritassi» sorrise lei.

La stanza era in penombra, debolmente rischiarata solo dagli esili fili di luce che filtravano dalle fessure delle veneziane. Il volto dell’uomo era un pallido oggetto di cera posato sul cuscino.

«Quando mia moglie mi ha detto che avevi chiamato ho pensato a un errore».

«È stata molto gentile. Considerato che non sa cosa c’è stato fra noi».

«A un condannato non si nega l’ultimo desiderio».

«Ma il desiderio è mio, non tuo…».

                                                                               ****

La voce ancora giovanile della donna riportò indietro nel tempo la memoria del cieco. Al giorno di trent’anni prima in cui una ragazza aveva bussato alla porta del suo studio e gli aveva spiegato cosa voleva da lui.

«E per chi vorresti farle, queste foto? Per il tuo ragazzo?» le aveva chiesto.

«No. Sono per me».

«Sei maggiorenne? Guarda che non voglio guai».

«Ho ventun anni» aveva risposto lei, guardandolo con occhi sfrontati.

Il fotografo aveva studiato a lungo quel viso, le spalle magre, le lunghe gambe. Non aveva chiesto alla ragazza se aveva i soldi per pagare. Lei gli aveva detto il suo nome, e a lui era bastato. La famiglia della ragazza era la più facoltosa della città.

«Mi hai detto per chi. Che è per te. Ma perché vuoi farlo?»

«Te lo dirò quando avremo finito».

E senza aggiungere altro aveva cominciato a sbottonarsi la camicetta.

Lui l’aveva fermata. «No. Prima il viso».

Aveva chiuso a chiave la porta dello studio. Poi per mezz’ora aveva scattato rullino dopo rullino, concentrandosi solo su quel magnifico volto degno di Botticelli, cercando di coglierne ogni dettaglio, di distillarne in luce la bellezza.

Solo dopo le aveva detto che poteva spogliarsi. E a questo punto era stata lei, prima così ansiosa di farlo, a esitare. Ma alla fine, mentre la luce del giorno calava, il suo corpo nudo era emerso dai vestiti, sparsi a terra come i petali di un fiore. Il fotografo aveva approfittato fino all’ultimo di quella luce effimera e calda, per salvare dall’ombra, che riempiva sempre più la stanza, la meraviglia di quella pelle giovane. Perché la bellezza è al tempo stesso effimera ed eterna, e in quegli attimi l’uomo si era sentito al tempo stesso felice e triste come mai in vita sua.

Quando ebbe finito di fotografarla, la ragazza si era rivestita. L’uomo le aveva detto che poteva passare a prendere le stampe l’indomani, ma lei aveva scosso la testa. Voleva restare con lui fino a lavoro finito.

Il fotografo aveva altri lavori più urgenti, ma colse negli occhi della ragazza una determinazione e un’urgenza a cui non poteva opporre un rifiuto.

Aveva lavorato sotto gli occhi di lei per metà della notte durante le fasi alchemiche dello sviluppo e della stampa. Nella debole luce rossa della camera oscura gli occhi della ragazza brillavano di una curiosità quasi infantile mentre vedeva le immagini di sé emergere dall’acqua come per magia.

Alla fine del lavoro aveva chiesto all’uomo di consegnarle tutto: foto e negativi.

Di quella giornata di lavoro gli era rimasto solo il ricordo, e le banconote stropicciate che la ragazza gli aveva messo in mano chiedendogli se bastassero. Lui senza nemmeno contarle le aveva risposto di sì, ma avrebbe fatto lo stesso anche se fossero stati soldi del Monopoli.

                                                                                ****

«Quando è successo?»

«Cosa?»

«Quando hai perso la vista».

Lui non le rispose. Avrebbe potuto mentirle dicendole Falluja, o Sarajevo, o uno dei tanti luoghi terribili in cui era stato, che aveva immortalato nelle sue foto. Ma la sua cecità non era niente di glorioso, o di memorabile. Era solo un effetto secondario del male che lo stava uccidendo.

Lei sospirò. «Non ti ho mai detto perché le avevo fatte, quelle foto. È ora che te lo dica. Ho voluto quel servizio perché sapevo che non sarei mai più stata così bella. Così giovane. Volevo che restasse qualcosa, di me. Di quella me. Per me».

«Sono contento di esserti stato utile».

«In realtà ho perso quelle foto, e anche i negativi, tanto tempo fa. Me n’ero persino scordata, che tu ci creda o no. Poi ho letto il tuo nome sul giornale, che eri molto malato, e…».

«Perse? Tutte?»

«Sì» gli aveva risposto, triste. E poi gli aveva detto perché era lì.

«Tu sei l’unico che ricordi com’erano, quelle foto. Com’ero. Sei l’unica persona in cui ancora vive quella me più giovane. Quella che non esiste più».

Gli prese la mano, per guidarla sul suo volto.

Lui la tirò indietro, con la poca forza che aveva. «Le ricordo, quelle foto» disse. «Le ricordo tutte. Ascoltami».

                                                                                 ****

Per più di un’ora il cieco le parlò di lei. Le descrisse in ogni dettaglio quelle foto, e attraverso quelle la sua pelle, gli occhi, la perfezione del suo corpo.

A un certo punto lei gli chiese di farle posto, di lasciarla stendere accanto a lui.

Il cieco le strinse la mano, senza smettere di parlare.

Al suo fianco sul letto c’era una donna di cinquant’anni, ma lui vedeva la ragazza che era stata, e così la descrissero le sue parole, che nel buio della stanza suonavano come versi di una poesia fatta di dolcezza e rimpianto.

Quando ebbe finito di descriverle l’ultima foto, che in realtà era stata la prima che aveva scattato, lo sguardo ridente e azzurro dietro il velo dei capelli sciolti, la voce dell’uomo tacque. La sua anima restò in silenzio.

«Mia moglie sta per tornare. Meglio se vai» le disse dopo un po’. Nel buio anche la sua voce non sembrava più quella di un vecchio.

«Sì», sussurrò lei, allungando la mano verso quella di lui ma senza sfiorarla.

Il buio finì di riempire la stanza. Rimasero solo le piccole luci colorate delle apparecchiature mediche.

«Grazie» disse la donna, alzandosi dal letto.

L’uomo non aprì gli occhi. Ormai non faceva alcuna differenza.

In quel buio, invisibili, le sue lacrime brillavano come stelle.

(Il racconto è pubblicato in accordo con Mala Testa Li. Ag. Milano)

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