Tutto può cambiare tutto può tornare. La marea è filosofia
Per alcuni giorni Marco aveva lavorato sul litorale, tra Malamocco e gli Alberoni. Una mareggiata furente aveva prima eroso la spiaggia e poi scaraventato sulla sabbia residua, oltre a rifiuti di ogni tipo, una foresta di alberi sradicati, cespugli, rami secchi e spezzati, insieme a un tappeto di conchiglie e a un intero firmamento di stelle marine.
Era stato necessario un intervento straordinario per raccogliere e accatastare manualmente tutta quella roba poi portata via con mezzi meccanici. Ci aveva guadagnato qualche centinaio di euro, faticando parecchio al vento freddo d’autunno.
Non andava spesso a Venezia, e neanche molto volentieri
Non andava spesso a Venezia, e neanche molto volentieri. C’era nato, ma la famiglia era andata via quando aveva sette anni. La loro casa, di proprietà di un ente benefico che da tempo immemorabile affittava alloggi a prezzi modici, era stata trasformata, con tutto l’edificio, in un B&B. Una volta, anni dopo, c’era passato davanti. Era fine novembre, bassa stagione, ma c’era gente che entrava e usciva, con zainetti sulle spalle, trascinando trolley.
Non l’aveva detto a sua madre. Erano finiti in terraferma come su un altro pianeta: una città d’asfalto, veloce, caotica, automobili, tralicci, industrie, cantieri navali, gru gigantesche, ponti strallati, palazzoni, torri di cristallo. Venezia era solo un orizzonte, o un ritorno saltuario – qualche Redentore o Carnevale, qualche evento. Era anche la nostalgia che ne sentivano i suoi genitori, che pure evitavano di parlarne. Marco pensava che c’entrasse con l’infarto che aveva portato via suo padre. Il crepacuore dello sradicato, pensava, giurando che nessuna malinconia di niente avrebbe mai potuto farlo suo.
Si era iscritto all’università, e per pagarsi gli studi e mantenersi, era entrato in una cooperativa multiservizi, ramo pulizie. Non era raro che facessero lavori in laguna o sul litorale. Come quando, prima della mareggiata, temporali e piogge lente e fitte oppure rapide e scroscianti si erano ripetute, insistenti, tra aprile e giugno. Dall’entroterra, con l’acqua piovana, attraverso fiumi e canali e colando dalle sponde, erano dilavate in laguna, portate dagli scarichi civili o dai fertilizzanti chimici, sostanze nutrienti che avevano concimato i bassi fondali. Con l’estate, si era prodotta un’abnorme fioritura di alghe. Verdi praterie, di un colore ora vivido ora marcio, avevano ricoperto per diversi giorni la laguna nelle zone subissate di nutrienti. A luglio, alla fine del loro ciclo vitale, le alghe erano morte spargendosi inerti sulla superficie e rilasciando il tipico odore di uova marce, l’odore dei gas liberati dalla putrescenza, soprattutto l’idrogeno solforato. Nei giorni più caldi, le zone in cui il fenomeno era stato più acuto erano diventate delle gabbie mortali per ogni forma di vita, in particolare per i pesci, che il gas aveva sterminato come uno spietato, anfibio angelo della morte. Uno sciame inerte di creature argentee giaceva dove prima stavano a decomporsi le alghe.
Era stata, perciò, attivata una raccolta straordinaria di alghe e pesci e mucillagini color bile. Insieme ai mezzi meccanici, era tornato utile il lavoro manuale, con le retine. Lavorando in barca, Marco portava un berretto bianco a cui era molto affezionato, con il nome della palestra di aikido che aveva frequentato a Venezia da bambino e che aveva trovato in quella che frequentava adesso, lasciato lì da qualcuno. Scritto in nero, accanto al nome della palestra, c’era il motto: sie ore la cala, sie ore la cresse. La marea, s’intende. Ma a Venezia è filosofia. Le cose vanno su e giù e possono sempre cambiare, si perde e si vince in palestra, nei combattimenti, come in tutto. Così fa la marea che, dalle bocche di porto, penetra in laguna dal mare e, spingendosi ai limiti del bacino interno, ne cambia l’acqua e la purifica.
Insomma, aveva questo berretto in testa quando, dopo averlo appoggiato per godere di un po’ di brezza improvvisa, non l’aveva più visto. Doveva essergli caduto in acqua. Gli dispiacque, anche perché l’aveva fatto firmare a un maestro giapponese venuto a tenere uno stage.
La mareggiata d’autunno li aveva costretti a un intervento più faticoso di quello estivo, sprofondando con le scarpe nella sabbia fradicia, inciampando nei tronchi, nelle carcasse di animali, su giocattoli e suppellettili e utensili scagliati a riva. Durante una pausa, seduto su un tronco a sgranocchiare una barretta alle mandorle, gli era caduto lo sguardo su una chiazza bianca in mezzo a sterpi, alghe e sabbia fradicia.
Chi si rivede – si era detto. Il berretto doveva essere arrivato al mare lentamente, nei mesi precedenti, seguendo le correnti, e il mare doveva averlo restituito, scaraventandolo sulla spiaggia con la tempesta. Pur sbiadita e sporca di sabbia e salsedine, scrostandolo si leggeva ancora la firma del maestro Kobayashi.
Singolare, unica Venezia aveva pensato
Singolare, unica Venezia – aveva pensato. Lo sapeva, ma ora la vedeva. La sua bellezza fondamentale. Sì, certo, i mosaici. La luce dorata di San Marco. E l’ordine sereno e forte delle architetture. Il trionfo del colore a San Rocco e ovunque. Le notti sui rii e le stelle sopra le cupole, sopra tetti di case ben salde sull’acqua. Tutto quello che tutti sanno e ammirano. Ma ce n’era anche un’altra: una bellezza viscerale e sofferta e vitale. Stava in quelle alghe decomposte e in quei pesci d’argento in agonia sul dondolio dell’acqua nelle estati guaste. Stava nella violenza del mare, nelle tempeste sulla spiaggia d’inverno. Nella depressione stagnante e nella furia selvaggia. Nel flusso di marea, che sale e che scende, di sei ore in sei ore, la marea che tutto porta via e tutto riporta. Stava nel lento ciclo che immette la città, l’opera nostra, nel lavoro incessante della natura, stava nel calcolo, misura del nostro rapporto con essa, e stava nell’istinto, il sentimento del nostro appartenerle.
L’aveva raccontato a sua madre, poi. Lei l’aveva ascoltato guardando dalla finestra di casa, all’ultimo piano del palazzone, da cui si vedeva lontano il profilo di Venezia. Non aveva detto niente, gli aveva solo chiesto se restava a mangiare.
Poi si era girata, aveva preso il berretto e, sorridendo, gli aveva detto che ci avrebbe pensato lei a pulirlo e a ridarglielo come nuovo.
L’autore
Gianfranco Bettin, veneziano di Porto Marghera, è saggista e narratore. I suoi romanzi: “Qualcosa che brucia” (Garzanti 1989), “L’erede” (1992), “Sarajevo Maybe” (1994), “Nemmeno il destino” (1997, da cui è stato tratto il film omonimo di Daniele Gaglianone), “Nebulosa del boomerang” (2004) tutti editi da Feltrinelli, e “Cracking” (Mondadori, 2019). Con Marco Paolini ha scritto lo spettacolo teatrale e il romanzo “Le avventure di Numero Primo” (Einaudi, 2017) e con Andrea Segre il film “Il pianeta in mare” che è stato presentato nel 2019 alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
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