Pietro Semenza ricorda gli errori commessi: «Gli studi di mio padre non furono considerati»

Il figlio di Edoardo, anche lui geologo, ricostruisce l’analisi sui versanti: «Confermò l’esistenza di una paleofrana e la massa con precisione»

Francesco Dal Mas
Il geologo Pietro Semenza, figlio di Edoardo e nipote di Carlo
Il geologo Pietro Semenza, figlio di Edoardo e nipote di Carlo

«Mio padre Edoardo ha studiato la zona dei versanti del Vajont, quattro anni prima che accadesse il disastro e scoprì che sul fianco sinistro della valle c’era una vecchia frana che era scesa in epoca post glaciale e che avrebbe potuto rimuoversi con la creazione eventuale del lago che allora non era stato fatto, o meglio era in essere ma aveva una portata assolutamente bassa».

Chi parla è Pietro Semenza, uno dei 6 figli di Edoardo. Geologo pure lui. Una vita tra il Polesine e Ferrara, ma Pietro conosce bene il Vajont, il Bellunese. Spesso sale anche al rifugio Carlo Semenza (che porta il nome del nonno, progettista di dighe, anche quella di Longarone, e alpinista), ai 2000 ed oltre metri sopra Tambre, all’ombra della cima del Monte Cavallo. «Un luogo magico nella sua sobrietà», afferma, «anche per ripensare a quanto è accaduto 60 anni fa».

Parte da lontano il racconto di Pietro Semenza. «Il progetto della diga andava avanti dai primi anni ’20. Al ’27-’28 risalgono i primi studi, che però maturarono con gli approfondimenti dei geologi Dal Piaz e Muller negli anni ’50. Si teneva conto, allora, della compattezza delle spalle di un invaso, ma senza eccessivi approfondimenti. È a seguito della frana sul bacino di Pontesei, nella vicina Val Zoldana, nel marzo 1959, che», dice Semenza, «ci si preoccupa con maggiore profondità dei versanti del Vajont, che erano stati studiati, come testimoniano alcune relazioni, ma non ci si era accorti dell’instabilità del fianco sinistro del Monte Toc. A fine luglio del 1959 viene affidato a mio padre l’incarico. A fine agosto, cioè a solo un mese di distanza, lo studio è pronto nei tratti essenziali».

Ed Edoardo Semenza che cosa scopre? «Scopre l’esistenza di una paleofrana che avrebbe potuto smobilizzarsi qualora il livello del lago si fosse innalzato a tal punto da arrivare alla superficie di scivolamento».

Trascorrono pochi mesi ed ecco che all’inizio del 1960 «iniziano i primi movimenti e il 4 novembre scende una porzione di versante sinistro». Il figlio di Edoardo specifica oggi che non era una frana consistente; aveva un volume di 700 mila metri cubi. «Nulla aveva a che vedere, dunque, con quella che sarebbe caduta la sera del 9 ottobre di tre anni dopo, di ben 270 milioni di metri cubi. Ma anche quel primo movimento desta molta preoccupazione per cui si abbassa il livello del lago. E vengono decise nuove indagini, approfondimenti geologici ancora più puntuali, si installano sensori di rilevamento. E soprattutto si decide la costruzione della galleria di sorpasso sul fianco destro della montagna».

Gli studi a quali conclusioni portano? «A conclusioni che confermano una preoccupazione sempre maggiore», conferma ancora Semenza. «Viene individuato un fronte di possibile movimento di quasi due chilometri, con una profondità tra i 100 ed i 200 metri, in alcuni punti anche di più, e per una altezza verso la cima del monte Toc di più di un chilometro. La massa veniva calcolata allora tra i 250 ed i 260 milioni di metri cubi. Come sappiamo, quella che cadde il 9 ottobre fu di 270 milioni».

A sorprendere, come ammette ancora Semenza, è stata la velocità di caduta. «Vennero giù due fronti, in più momenti ma molto ravvicinati temporalmente. Può essere in 19 secondi, come taluni hanno valutato. La mattina del 9 ottobre chi c’era sulla diga, testimoniò che si muoveva, quella frana, ma era inarrestabile. A sorprendere è stata appunto la velocità degli ultimi momenti, valutata in 80, quasi 100 km all’ora. L’errore grave», afferma Semenza, «è stato senza dubbio innalzare il lago nei precedenti mesi di agosto e settembre 1963, ben oltre il livello di massima sicurezza che l’ingegner Ghetti dell’Università di Padova aveva studiato ed indicato, attraverso il modello idraulico in scala, conservato ancora a Nove di Vittorio Veneto; un modello primo in assoluto al mondo per lo studio dei potenziali effetti di scivolamento di una frana in un invaso».

L’errore “davvero grosso”, ripete il geologo figlio di Edoardo Semenza, fu non solo di non aver abbassato il livello dell’acqua ma addirittura di averlo elevato oltre la quota di sicurezza. E, in particolare, di non aver attuato misure elementari di Protezione civile, prima fra tutte l’evacuazione. «È vero che allora la Protezione civile ancora non esisteva. Venne istituita dopo. Ma la popolazione poteva comunque essere allontanata. Tra l’altro, se ben ricordo, alcuni studi, seppur approssimativi, di area inondabile erano stati compiuti».

Al recente convegno dei Geologi italiani a Longarone, Pietro Semenza ha presentato la relazione di suo padre Edoardo tra il luglio e l’agosto 1960. «Studi, come sappiamo, che purtroppo non sono serviti a impedire il disastro perché negli anni che si sono succeduti la gestione dell’impianto, specialmente dopo la morte di mio nonno, che è avvenuta nell’ottobre del ’61, è passata ad altri. I quali hanno ragionato per conto loro. Non c’è stata più la consulenza di mio padre. Ed era uscito dai giochi anche Dal Piaz, deceduto pure lui. Io non conosco neanche bene tutti gli aspetti di gestione che sono stati adottati. Sicuramente, però, l’invaso è stato alzato oltre il livello che avrebbe dovuto essere e probabilmente è successo quel che è successo proprio per questo».

Di suo padre ricorda che “ogni giorno pregava per le povere vittime” e fin da quel giorno non si dava pace per il fatto che la conclusione dei suoi studi non fosse stata tenuta in conto. Di conforto, se così può essere definito, c’è il fatto che negli anni sono state definite procedure di protezione civile assolutamente precise, chiare, lampanti. «Oggi la normativa è molto stringente in materia. Per le grandi opere, specialmente le grandi dighe, si deve sottostare a tutta una serie di adempimenti tecnici e di controllo e di eventuale evacuazione che sicuramente allora avrebbero scongiurato il pericolo per le vittime».

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