«Salvato da un cambio turno i miei colleghi morirono tutti»
L’orologio caduto nel vuoto per 280 metri segnava l’ultima ora che Angelo Costa avrebbe trascorso sulla diga del Vajont prima della tragedia criminale che di lì a qualche giorno avrebbe travolto la vita di quasi 2 mila persone.
Ci sarebbe tornato solo dopo aver pianto per aver scampato la morte e per i quarantadue amici che invece ne vennero inghiottiti. Costa è di Caviola, frazione di Falcade, oggi ha 92 anni e, nella casa di Agordo, da dietro un paio di occhiali scuri ricorda con commozione i giorni precedenti e successivi il 9 ottobre 1963.
Quinta elementare, studio per corrispondenza di argomenti elettrici ed elettromeccanici, dall’8 aprile 1957 operaio della Sade prima e dell’Enel poi, in forza al Riae-Reparto installazione apparecchiature elettriche, Costa nel 1963 da circa un anno e mezzo lavorava sulla diga. Chiamato in interventi in cui – come dice lui – «bisogna avere coraggio e anche essere spericolati».
Come a metà agosto, quando il monte Toc dà delle avvisaglie che alle maestranze della Sade non passano inosservate. «Io e altri compagni eravamo lì sulla diga che mettevamo delle canalette», racconta Costa, «poi sentimmo un boato. L’ufficio lavori, l’ufficio montaggio e l’impresa Monti si fermarono. Il giorno dopo, però, vennero da noi, più giovani e più spensierati, per chiederci di andare giù a vedere. Io e un altro ci andammo. Meno di due mesi dopo è successo quello che è successo».
Costa ricorda come «chi stava ai livelli superiori metteva un dipendente, De Vido, a fare dei controlli. A Venezia sapevano quello che risultava da questa attività, ma noi quassù non sapevamo niente».
Con la preoccupazione legata a quello che aveva sentito a metà agosto, la settimana prima del disastro Costa riceve l’incarico di affacciarsi sullo strapiombo della diga per posizionare delle canalette in ferro nichelato. «Era il mercoledì precedente», racconta, «viene Mario Scussel, di Agordo, vice-direttore del Riae, che mi dice che nessuno vuole andare su dove finisce la diga sopra uno strapiombo di 280 metri per mettere le canalette. L’impresa Monti non aveva nessuno disposto ad andare. Gli ho risposto che se mi dava due operai, Silvano Tonon, mio cugino, e Petris, un friulano, avremmo fatto, ma che non contasse le ore».
I tre lavorano dal mercoledì al sabato a mezzogiorno e finiscono il lavoro. «Non me ne accorsi», dice Costa, «ma a un certo punto uno dei due che era con me mi fece notare che il mio orologio era caduto in fondo. Quando tornai ad Agordo andai a comprarmene uno nuovo».
Questo orologio avrebbe misurato un tempo diverso, che da sessant’anni gli ricorda che fra i 1.910 morti del Vajont avrebbe potuto esserci anche lui. «Il lunedì», prosegue il classe 1931, «prendo il taxi e vado a Longarone. Saluto gli amici che sono là e parto per andare alla diga. Vengo però fermato perché, mi dicono, devo andare alla centrale di San Foca in Valcellina».
Non è come oggi che dal cellulare si manda un messaggio in tempo reale. Alla moglie Maria Rosa Follador che è a Caviola con una figlia di 18 mesi e un’altra tre anni più grande, Angelo non dice niente e va a San Foca dove resta il martedì e il mercoledì. «Il giovedì mattina», racconta, «non vedo arrivare nessuno, poi alle 9 ecco il capo degli operai di Montereale che mi fa: “Non sai che è caduta la diga del Vajont?”».
Ero su una palina che tiravo un cavo, sono sceso e sono andato in centrale. I telefoni erano tutti occupati, sono andato a un telefono pubblico e ho chiamato l’amico Giuseppe Ganz (a casa nostra non avevamo il telefono), ma la moglie ha capito che ero a Santa Fosca e non a San Foca».
Poco male, perché Maria Rosa almeno sa che Angelo è vivo. «Mia cognata aveva una lavasecco e io il giovedì mattina l’avevo sostituita», racconta la moglie, «quando è arrivata una cliente dicendo che era caduta la diga e che c’erano morti non sapevo cosa fare e pensare sapendo che Angelo era lì. Poi è arrivata la telefonata».
Nel frattempo Angelo era andato a Nove. «Siamo arrivati assieme all’elicottero che aveva a bordo Andreotti e un altro che ci hanno salutato», dice, «poi io e Corrado Zasso siamo partiti per Agordo e da qui io, in corriera, fino a Caviola».
«Ho pianto per due giorni», dice, «e adesso piango ogni anno ricordando i miei amici. Come Silvano Tonon e un De Toffol da Belluno che faceva il telefonista e che quel mercoledì sera non doveva essere sulla diga. Lui il mercoledì andava sempre a casa, ma avevamo fatto una scommessa con lui, Tonon e Muran, un friulano, su quale fosse la società elettrica più grande. In palio c’era una cena, ma quel mercoledì io ero a San Foca, Muran era stato trasferito a Soverzene. Tonon e De Toffol sono morti».
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