«Scavammo nel fango anche con le mani Non scorderò mai gli occhi e quelle voci»
Vincenzo Campisi era un giovane carabiniere in servizio a Belluno.
Arrivò con i colleghi nel paese devastato prima di mezzanotte
Salvati dal fango con le mani nude. Non c’era altro con cui scavare, appena successa la tragedia del Vajont. Davanti agli occhi invecchiati, anche dopo 60 anni, passano ancora i volti lividi e disperati di uomini, donne e bambini che avevano perso tutto e gridavano aiuto. Ma almeno erano vivi. Vincenzo Campisi era un giovane carabiniere, arrivato a Belluno da lontano. Aveva passato la serata del 9 ottobre 1963 al cinema e, pochi minuti dopo i titoli di coda, si è ritrovato catapultato in uno scenario apocalittico. Uno dei primi ad arrivare in una Longarone che non c’era più e a rendersi conto di quello che era accaduto. Buio e silenzio innaturali.
Una tempesta di emozioni stampate nella memoria: «Sono orgoglioso di essere stato uno dei tanti soccorritori del Vajont», sottolinea il vicebrigadiere in congedo, «purtroppo ho visto tanti morti, disseminati lungo tutta la valle e nelle posizioni più terrificanti. Corpi mutilati delle braccia o delle gambe, genitori abbracciati ai loro figli sotto una coperta di fango e persone che vivevano ed erano morte da sole. Ma ho avuto anche la fortuna di poter aiutare tanti longaronesi, insieme al mio collega Antonio Petrone. Ho incrociato sguardi che non potrò mai dimenticare. Soprattutto quello di un bambino, che siamo riusciti a portare in salvo».
La caserma dei carabinieri di Belluno, negli anni Sessanta, era al numero 62 di via Mezzaterra: «La ritirata era alle 22.30 e il mancato rispetto dell’orario significava prendere una punizione. Sono andato in camera e stavo per scrivere una lettera ai miei genitori. Ho fatto in tempo a prendere carta e penna quando qualcuno ha bussato alla porta: per ordine del comandante della stazione, bisognava subito indossare la divisa kaki con cinturone e spallaccio e radunarsi nel cortile, perché era successo qualcosa di grave e bisognava partire al più presto».
L’orologio di Campisi segna le 23.30 quando sale su un pulmino con dei colleghi. Un viaggio di una quindicina di minuti, senza sapere perché: «Non ero mai stato a Longarone. Il nome l’avevo già sentito, però mi avevano trasferito a Belluno da poco. Ci siamo arrivati a piedi e quello che ho visto è difficile da descrivere: macchine capovolte, animali gonfi per l’acqua a zampe all’aria, i binari della ferrovia contorti e cadaveri dappertutto. Ho pregato la patrona dell’Arma, Virgo Fidelis, cercando di farmi coraggio, insieme anche al brigadiere Lorenzi e all’appuntato Iorio. Nel tentativo di portare il nostro aiuto siamo arrivati a una casa che era rimasta miracolosamente in piedi, vicino al campanile di una chiesa. Non sapevo di essere a Pirago. Abbiamo trovato la famiglia Munarin. Terrorizzata e infreddolita, ma in vita. Pensava ci fosse stato il terremoto: aveva sentito un forte boato e poi le luci si erano spente».
Un silenzio violato solo dalle grida di aiuto o dalle sirene delle ambulanze: «Qualcuno ha gridato qui qui e ci siamo avvicinati», racconta il cavaliere della Repubblica, «c’era una mano che spuntava dal terreno. Abbiamo iniziato a scavare con le mani, in un secondo momento sono arrivati i vigili del fuoco con delle pale. Dopo mezz’ora, siamo riusciti a estrarre una ragazza sui 16 anni, gonfia e sfigurata, ma viva. È stato un momento di commozione e gioia, in mezzo a tanta disperazione. Ho sentito la sua immensa gratitudine».
Il mattino dopo Campisi e gli altri militari tornano a Pirago per ordine del comandante della Compagnia, Vito Buttiglione: «Dovevamo soccorrere quei superstiti. Un bambino piangeva e non sapevano cosa fare. Abbiamo deciso di andare all’ospedale civile, in via Caffi. Il mio collega ha preso in braccio il piccolo e abbiamo incrociato giornalista e operatore della Rai. È quell’immagine, che mi accompagna ancora adesso, dopo sessant’anni. Il mio ricordo e la mia preghiera per le vittime, i superstiti e i soccorritori di quella notte. Soprattutto quel bimbo dolcissimo».
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