Vajont 1963-2023: memoria al futuro, il nostro impegno

Chi viveva in questa valle spazzata dall’immane disastro compiuto, chi accorse per scavare nel fango, non può dimenticare
Luca Traini
Un'immagine tratta dagli archivi fotografici sulla strage del Vajont
Un'immagine tratta dagli archivi fotografici sulla strage del Vajont

Chi viveva in questa valle spazzata dall’immane disastro compiuto, chi accorse per scavare nel fango, non può dimenticare. Erano bambini, adolescenti, donne e uomini: quella notte e l’alba che li sorprese in un mondo che non era più il loro sono costantemente presenti. Erano giovani reclute, hanno ancora gli incubi. Vittime e testimoni di ciò che è stato. Sessant’anni dopo ci chiedono un’attenzione corale per coniugare la memoria al futuro.

L’industrializzazione portata sulla piana irriconoscibile di Longarone perché il paese martire risorgesse in fretta, con il continuo richiamo di lavoratori da fuori, ha fortemente trasformato la comunità che era. Raccontare è essenziale persino qui, dicono i sopravvissuti. Raccontare il proprio io nella tragedia, riaffrontare i demoni, perché la storia del Vajont non sia dimenticata, ridotta ad una litania asettica di cifre o, peggio, traviata. Li ascoltiamo con rispetto.

È un percorso a ritroso, dai morti alle responsabilità, risalendo al come e al perché, quello che tracciamo in queste pagine. Convinti che la lezione del Vajont sia quanto mai attuale: ci parla di rapporti tra affari e potere, del profitto come misura assoluta, di superbia nei confronti della natura. Affronta tensioni e questioni cruciali per la nostra società.

La memoria va coltivata. Si nutre di impegno, ha bisogno di simboli. Noi abbiamo impugnato la bandiera della custodia a Belluno degli atti giudiziari.

La storia è nota. Il processo penale sulle responsabilità del disastro fu allontanato all’Aquila per il timore che l’imparzialità dei giudici del territorio fosse compromessa, formalizzando la scelta con motivi di ordine pubblico. Da allora e fino al 2009 gli atti giudiziari sono rimasti là, spostati dalla cancelleria del tribunale all’Archivio di Stato annesso alla prefettura, seguendo l’iter di un qualsiasi procedimento ordinario. All’Aquila fino al terremoto accaduto che ha squassato la montagna abruzzese, ucciso 309 persone, e fatto del Palazzo del Governo sbriciolato - proprio di quel palazzo e del suo architrave spezzato – un’immagine iconica. Nell’emergenza, i 256 faldoni, con i documenti dello scellerato progetto del grande bacino e del disastro che comportò, furono portati a Belluno. Sono perizie, dati tecnici, relazioni, interrogatori, profili delle vittime e le tre sentenze: l’istruttoria del giudice Mario Fabbri, il primo grado aquilano del ’69 e l’Appello del ’70.

A Belluno tutto il materiale è stato restaurato con un lavoro paziente di anni. Con una cura religiosa, per quei quattordici faldoni che contenevano i profili delle vittime, finiti in ammollo in uno scantinato abruzzese e preda delle muffe, che le suore benedettine di Santa Maria a Rosano hanno recuperato e reso di nuovo leggibili. Gli atti sono stati digitalizzati foglio per foglio, e l’intero archivio su cui l’Unesco ha posto il riconoscimento di “Memoria dell’umanità” è pronto per essere pubblicato sul web. Ma l’Aquila reclama gli originali. Deve farlo, perché il suo Archivio di Stato è tornato operativo, i motivi della trasferta sono venuti meno. Le ragioni della memoria, no.

A sessant’anni dal disastro, c’è bisogno di una norma che riconosca Belluno come città in cui custodire quegli atti. Lo si deve al territorio. Lo si deve alla memoria di Fabbri, l’uomo che ebbe il coraggio, la tenacia e la competenza per togliere il Vajont giudiziario dal binario della natura crudele e della catastrofe naturale.

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