Vajont: un disastro prevedibile. E regolarmente previsto
La società Sade sapeva che una frana sarebbe prima o poi caduta nel lago del Vajont. Ma negli anni precedenti al disastro del 9 ottobre 1963 minimizzò i rischi e mise a tacere gli allarmi. Nascosti studi geologici, rilevazioni ed esperimenti
La frana era prevedibile Sì, la Sade sapeva. Per anni inchieste tecniche e giudiziarie si sono affannate intorno a una sola domanda: la frana crollata nel lago del Vajont il 9 ottobre 1963 era prevedibile, o no? La storia giudiziaria del disastro che causò 1910 morti sta tutta nella risposta a questa domanda. Che fu positiva.
Per anni la società che aveva costruito la diga che doveva coronare il sogno del Grande Vajont ha tenuto nascosti i risultati delle indagini tecniche sulla tenuta e sulla stabilità del bacino; ha scelto di credere alle ipotesi scientifiche meno allarmistiche; ha continuato a riempire il lago nonostante le proteste degli abitanti e i preoccupanti segni di cedimento della montagna.
Quando ha capito di aver osato più del dovuto, era ormai troppo tardi. La frana era incontrollabile.
Via libera alla costruzione
Prima di costruire una diga, anche negli anni Trenta bisognava verificare la stabilità del terreno sul quale l'opera si sarebbe appoggiata. Controllare i versanti del futuro bacino, invece, non era ancora necessario: la Sade si attiene ai regolamenti, in questo caso. Il professor Giorgio Dal Piaz dà il via libera: la roccia è compatta. Quando però il progettista Carlo Semenza gli chiede di aggiornare i suoi studi, in vista di un innalzamento a quota 730 metri slm, il geologo è turbato: "Le confesso che i nuovi problemi prospettati mi fanno tremare le vene e i polsi".
Un turbamento che non basterà a fermare il progetto: nel 1957 la Sade comincia a costruire la sua diga, ancora prima di ottenere l'autorizzazione ministeriale. La relazione geologica per il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici la firma sempre Dal Piaz, ormai ottantacinquenne. Non la scrive lui, però. Ci pensa l'ingegner Semenza: "Ho tentato di stendere la dichiarazione per l'alto Vajont – scrive il vecchio geologo al progettista – ma Le confesso sinceramente che non m'è riuscita bene, e non mi soddisfa. Abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch'Ella mi ha esposto a voce, che mi pareva molto felice".
La Commissione di collaudo
La Sade è abituata ad anticipare i tempi lenti della burocrazia statale: lo fa nel 1957 e continua a farlo anche dopo, durante il collaudo dell'impianto. Lo Stato, in teoria, ha gli strumenti per controllare che l'impresa idroelettrica rispetti le regole, ma la Sade è potente.
Il 1° aprile 1958 il ministro dei Lavori pubblici nomina una Commissione di collaudo per la diga del Vajont. In cinque anni, la Commissione non trova mai nulla da ridire sull'operato della Sade. Tre dei suoi cinque membri si trovano in posizione di incompatibilità. Uno di loro, il geologo Francesco Penta, è stato anche consulente della Sade per il bacino di Pontesei.
Proprio a Pontesei, nemmeno un anno dopo, una frana crolla nel lago, generando un'onda di 20 metri che travolge e uccide un uomo, Arcangelo Tiziani. L'incidente è un'anticipazione in scala ridotta del disastro del Vajont.
La Sade non fa tesoro dell'esperienza.
Pericolo di frana
Un po' si preoccupa, però: affida nuove indagini sulla stabilità dei versanti del Vajont al geotecnico austriaco Leopold Müller. Per la prima volta qualcuno va a vedere com'è fatta la sponda sinistra del futuro bacino: c'è “un forte pericolo di frana”. Anzi: un'enorme paleofrana di 200 milioni di metri cubi – la scopre Edoardo Semenza, giovane geologo figlio del progettista della diga, nel 1959 – potrebbe rimettersi in movimento via via che crescono le acque del lago.
Il vecchio Dal Piaz e il geofisico Pietro Caloi non sono d'accordo: la Sade sceglie la loro versione, più ottimista.
Nel 1960, prima ancora di ricevere da Semenza la sua relazione e – va da sé – di ottenere l'autorizzazione ministeriale, la Sade dà inizio agli invasi sperimentali. Riempie il bacino, lo svuota, lo riempie di nuovo alzando il tiro per collaudare l'impianto. Tutte le volte, prima fa, poi chiede il permesso.
La frana del 1960 e la grande frana
Nel 1960 cadono nel lago alcune frane. Una, in particolare, spaventa gli abitanti della valle: i duecentomila metri cubi crollati nel bacino il 4 novembre sono solo una minima parte del fronte franoso individuato da Semenza, che si muove come un blocco unico. Müller estende le sue indagini e scopre il perimetro reale della frana: forma una grande M, lunga due chilometri, sul monte Toc.
All'inizio del 1961 presenta alla Sade le sue conclusioni: la grande frana non è più arrestabile, probabilmente verrà giù in due tempi, non resta che controllarne la velocità di caduta. "Alla domanda, se questi franamenti possono venire arrestati – scrive Müller – mediante misure artificiali, deve essere risposto negativamente in linea generale; anche se in linea teorica si dovesse rinunciare all’esercizio del serbatoio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa una volta non tornerebbe tanto presto all’arresto assoluto".
Le preoccupazioni di Semenza
A questo punto, Carlo Semenza è decisamente preoccupato. Scrive a un amico: "Credo che fino a quando il livello sarà tenuto basso non sarà il caso di avere preoccupazioni. Ma cosa succederà col nuovo invaso? […] Le cose sono probabilmente più grandi di noi e non ci sono provvedimenti pratici adeguati […]. Dal Piaz e Penta […] tendono a non credere che avvenga uno scivolamento in grande massa e sperano (anch’io lo spero!) che la parte mossa si sieda su sé stessa […]. Mi trovo veramente di fronte ad una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani".
Di lì a pochi mesi, Semenza muore. E con lui, sparisce ogni remora.
Soluzioni al problema
La Sade non si ferma. Però è preoccupata: se davvero una grossa frana dovesse cadere nel lago, potrebbe ridurne notevolmente la portata, o addirittura renderlo inutilizzabile. Sarebbe un disastro economico. Decide quindi di costruire una galleria di sorpasso sulla sponda destra del bacino, per assicurare il deflusso dell'acqua anche in caso di frana. La galleria di sorpasso costa alla Sade sette mesi di lavori – da febbraio a settembre 1961 – e più di un miliardo di lire. Doveva avere delle gran buone ragioni, per costruirla.
Nel frattempo, gli esperti Sade decidono che la cosa migliore da fare, date le condizioni, è provocare artificialmente (con ripetuti invasi e svasi) lo scivolamento del versante del Toc fino in fondo al lago, per creare un punto di appoggio sulla sponda opposta e uno zoccolo alla grande frana.
Gli esperimenti su modello
Naturalmente, di tutte queste preoccupazioni e decisioni, nulla trapela all'esterno. Gli abitanti si accorgono che la montagna è sempre meno stabile: la Sade minimizza. E nasconde a chi dovrebbe controllare il suo operato le relazioni imbarazzanti, gli studi che potrebbero mettere a rischio il suo investimento economico. Così succede con gli esperimenti su modello.
All'inizio del 1961 la Sade incarica Augusto Ghetti, direttore dell'Istituto di Idraulica dell'Università di Padova, di condurre una serie di esperimenti per capire i possibili effetti della frana. Il bacino del Vajont viene ricostruito in scala 1:200 a Nove (Vittorio Veneto), nell'area della centrale Sade: lontano da occhi indiscreti. I dati sono forniti dalla Sade, che tende a essere ottimista: la taratura del modello risulta perciò parziale e imprecisa.
“La quota di 700 metri – è la conclusione di Ghetti – può considerarsi di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana”. Ma se una frana cadesse nel lago a quota di massimo invaso (722,50), l'ondata che si creerebbe comporterebbe “conseguenze impressionanti anche per Longarone”.
La Sade non autorizza altri accertamenti. E non invia la relazione degli esperimenti su modello al ministero, nonostante fosse tenuta a farlo. Se un dipendente dell'Istituto di Idraulica di Padova, Lorenzo Rizzato, non avesse conservato i documenti delle prove su modello tre giorni dopo il disastro del 9 ottobre 1963, forse non sarebbero mai stati trovati. E l'accusa avrebbe avuto una prova in meno a favore della prevedibilità della frana.
Rizzato, arrestato per furto, viene assolto per insufficienza di prove.
Quota 715
Il 17 ottobre 1961 la Sade inaugura la diga, prima ancora che il professor Ghetti concluda gli esperimenti su modello, nove mesi dopo. Procede a spron battuto con gli invasi, anche perché la nazionalizzazione è alle porte, e sarebbe bene arrivarci con la diga collaudata.
Nel marzo del 1963 chiede di riempire il bacino fino a quota 715: ben oltre la quota di massima sicurezza stabilita dagli esperimenti di Ghetti. Ma il Servizio dighe del ministero non può saperlo. La frana accelera. Le proteste degli ertani aumentano e la Sade continua a minimizzare. Ordina un altro "svaso": di solito abbassare il livello del bacino faceva arrestare la massa di rocce che incombe sul Toc. Questa volta è diverso: stressata dai continui invasi e svasi, la vecchia frana del Toc è ormai in movimento e – lo diceva Müller nel 1961 – non si può più fermare. Anzi, accelera anche di più: l'acqua del lago in questo caso faceva probabilmente da piano d'appoggio.
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