Basket, la storia di Drago Zec: «La guerra e la nuova vita a Feltre»

Il cestista dell’ex Jugoslavia  giocò anche con il mito Petrovic.  «Il 15 maggio 1992 cambiò tutto, prima eravamo tutti fratelli e sorelle»

Giovanni Pelosio
Drago Zec quando giocava nell'ex Jugoslavia prima della guerra
Drago Zec quando giocava nell'ex Jugoslavia prima della guerra

Pare che Winston Churchill abbia sostenuto che i Balcani producono molta più storia di quanta ne possano consumare. A prescindere dall’attribuibilità o meno di questa calzante affermazione al più celebre inquilino del numero 10 di Downing Street a Londra, ciò che emerge, non solo dalla Storia con la “esse” maiuscola, ma anche dalle chiacchierate che si hanno la fortuna di intavolare con chi proviene da quei luoghi, è la possibilità di raccogliere una quantità di vicende, notizie, narrazioni, che trasformano un’intervista in un percorso umano dalle mille sfaccettature, dai molteplici richiami, dagli infiniti spunti.

E così, quella che doveva essere un’intervista sul basket jugoslavo a Drago Zec, un omone di 204 centimetri, classe 1958, giunto ormai quasi trent’anni fa da Tuzla a Feltre, si è trasformata in un viaggio socio sportivo, con necessari riflessi sulla guerra che, dal 1991 al 1995, ha portato alla dissoluzione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Zec ha vissuto in patria le prime due grandi epoche d’oro della pallacanestro slava, un filone tuttora inesauribile e che, a partire dai primi anni Settanta, attraverso le dirette del sabato pomeriggio su Capodistria, con la voce di Sergio Tavčar, finì per appassionare anche il pubblico italiano.

Tra i suoi allenatori, per indicarne alcuni, può annoverare, infatti, Vlade Đurović, campione di Jugoslavia con lo Zadar e pure Boša Tanjevic, campione d’Europa per club col Bosna e successivamente per selezioni nazionali con l’Italia.

Sul campo ha affrontato il meglio del basket jugoslavo di quegli anni, campioni che hanno scritto la storia di questo sport. Poi, all’improvviso c’è stata la guerra. “Rata necé biti” si ripetevano i cittadini slavi, “la guerra non ci sarà” e invece, la guerra è arrivata, un conflitto che ha spazzato via ciò che rimaneva della fratellanza e dell’unità, sulle quali era sorta la Repubblica jugoslava e Drago Zec, già padre di due figli, dopo averne viste e vissute davvero di tutti i colori, ha pensato di poter assicurare loro una vita migliore proprio a Feltre.

Chiedere a uno slavo quale sia stata la migliore generazione del basket di casa sua, è un po’ come chiedere di scegliere tra la mamma o il papà, difficile ottenere una risposta netta e precisa.

«Non si può trovare la generazione d’oro della nostra pallacanestro, perché ci sono state tante epoche. Quando sono cresciuto il mio mito era il mancino Korać, morto in un incidente stradale e al quale hanno dedicato la famosa coppa europea per club. Prima di lui c’era stato Daneu, dopo di lui sono arrivati Ćosić, Jerkov, Delibašić, Kićanović, Praja (Dalipagić, ndr) e poi è iniziata la generazione successiva con Petrović e Divac, per arrivare a Kukoč e Rađa, ma poi ancora, in anni recenti, i fratelli Dragić e ora Jokić e Dončić, per rimanere dentro i confini di quella che è stata la Jugoslavia».

Come ha iniziato a giocare a pallacanestro?

«Ho cominciato a 13 anni a Banovići, la città dove sono nato il 6 gennaio del 1958. Al basket arrivai abbastanza tardi, perché vicino a casa non c’erano palestre; c’era, invece, a due chilometri un campo da calcio e allora il primo sport che ho praticato è stato proprio il calcio. Nei primi anni Settanta costruirono un campo polifunzionale davanti a casa mia, dove si potevano praticare la pallavolo, la pallamano e la pallacanestro. Iniziai con la pallavolo, ma un po’ mi annoiavo, perché c’era ovviamente ancora la regola del cambio palla e per fare un punto ci si impiegava una vita e anche perché bisognava buttarsi a terra, su quel campo di cemento. Poi, ho provato la pallamano, ma si prendevano delle botte pazzesche. Anche nel basket ci si scambiano dei colpi, ma non così violenti come le botte che prendevo sulle braccia, giocando a pallamano e allora mi sono dedicato al basket. Sono rimasto sotto canestro per trentatre anni, ritirandomi a Feltre, quando ne avevo quarantasei».

Come si è sviluppata la carriera di giocatore professionista?

«Dal ’71 al ’76 ho giocato con la squadra della mia città, poi sono andato in prestito allo Sloboda Tuzla, dove mi sono fermato per dieci anni. Nel 1981, dopo vent’anni, siamo saliti in Prva Liga, vincendo dopo tre supplementari la bella con lo Slovan Ljubljana. Giocammo lo spareggio, raggiunto in maniera rocambolesca, in campo neutro a Zara, dove arrivarono sei o sette autobus da Tuzla. Segnai 35 punti, non uscii mai dal campo, finii la partita stanchissimo. Eravamo tutti davvero stravolti, tanto che alla sera festeggiammo molto poco. All’indomani avremmo dovuto essere a Tuzla, con i tifosi che ci aspettavano, attorno a mezzogiorno, ma bucammo a Makarska, poi ci furono dei problemi ai cuscinetti dell’autobus verso Mostar, insomma arrivammo a casa alle nove di sera. Quelli sono stati anni splendidi, ci consideravano la generazione d’oro del KK Sloboda, dove in precedenza aveva persino giocato Kinđe (Delibašić, ndr). Già nel ’78 ero stato convocato nella nazionale B della Jugoslavia, con Tanjevic allenatore e Pešić, attuale tecnico della Serbia, in campo. Dal 1983 ho iniziato anche ad allenare, occupandomi del minibasket e poi delle giovanili. Sono, poi, passato per due anni, dall’86 all’88 al Krivaja e dal 1988 al 1990 ho vestito la maglia del Zivinice 78. In questo periodo ho anche cambiato lavoro, assieme al mio grande amico Zoran Novaković, papà di Saša, che ha giocato tanti anni con il Feltre Basket. Lavoravamo in una cava di carbone e antracite, eravamo responsabili dei trasporti con i camion di grandi dimensioni. Nel ’90 torno al Krivaja e poi nel ’91 iniziamo a trovare le strade chiuse, le barricate a ostruire i passaggi. Alla fine del 1991 è tutto fermo, compreso il campionato, che nel 1992 non si disputa».

I ricordi fluiscono rapidi, l’intervistatore non pone domande, in casi come questi ascolta.

«C’è una data precisa in cui possiamo dire che inizi la guerra a Tuzla ed è il 15 maggio 1992. Fino a quel giorno eravamo fratelli e sorelle, stavamo tutti assieme, musulmani, ortodossi, cattolici. A Tuzla c’era anche una piccola comunità italiana. Verso le 7 di sera, in concomitanza con l’uscita dalla città dell’Armata popolare jugoslava, la Jna, ossia l’esercito jugoslavo, hanno iniziato a sparare e nulla è stato più come prima. In quelle ore persi subito un mio amico, ma come spesso accade, un po’ alla volta ci si abitua a tutto, anche alle cose più brutte».

La vita, in qualche modo ricomincia, nonostante la guerra e si torna anche a pensare alla pallacanestro. Come avete ripreso a giocare a basket?

«In Jugoslavia si diceva che i pivot, il ruolo che ricoprivamo Zdenko Pavic e io, sono all’80% stupidi, al 10% buoni e il restante 10% è forte e furbo. Allora un giorno Zdenko mi dice: “Drago non vorrai mica che facciamo parte dell’80%. Voglio mettere assieme una squadra di religione cattolica” e io gli rispondo “ma come Zdenko, a Tuzla, dove c’è il 60% di musulmani?”. “Volevo dissuaderlo” ma lui mi rispose che, anzi, ne sarei stato il capitano. Tornai a casa e ne parlai con mia moglie. Fino ad allora io avevo sempre giocato da professionista e per questo Snezana mi chiese cosa avrei avuto in cambio della partecipazione a questa squadra cattolica, domanda che l’indomani girai a Zdenko, il quale precisò: “se fondiamo la squadra cattolica, entriamo a far parte della comunità cattolica, riceviamo dall’HVO, che era l’esercito della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia, una serie di autorizzazioni, tra le quali quelle di allenarci e giocare. A quel punto abbiamo cercato di allestire la squadra, che divenne un buonissimo club, al quale aderirono quattro cattolici, quattro ortodossi e sei musulmani. Era il 1993, anno di fondazione del KK Zrinski di Tuzla, nel quale giocarono Nenad Tešić, Emir Delalić e Nermin Pašalić, che avrebbero, poi, anche vestito la canotta del Feltre Basket. Partecipammo a un campionato regionale, che si disputava il sabato e la domenica, composto da dodici formazioni, che si affrontavano tutte a Tuzla. Questo durò fino al 1994, quando la comunità cattolica litigò con l’Armija BIH, ossia l’esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. In quella fase, il cibo faticava nuovamente ad arrivare a Tuzla. I sostegni della comunità internazionale per le nostre terre arrivavano tramite la Croazia, ma dovevano passare per l’Erzegovina e lì si fermavano. Non passava il cibo, ma guarda caso passavano le sigarette serbe».

Eppure Drago Zec continua a giocare, tornando a indossare la maglia del KK Sloboda.

«È vero. Nella stagione 93/94 torno allo Sloboda, per disputare una sorta di primo campionato nazionale bosniaco, che si sarebbe disputato nello spazio di tre giorni a Sarajevo, ovviamente senza il cantone di Banja Luka, che era sotto il controllo della Repubblica Srpska e senza l’Erzegovina, che era controllata dai croati, quindi si sarebbero affrontate solamente il Cesko Sarajevo, il KK Sloboda e lo Zenica. Eravamo, però, sempre nel mezzo della guerra, Sarajevo era sotto assedio, per cui i trasferimenti da e per Sarajevo furono a dir poco complicati. Eravamo completamente fuori forma, io per esempio avevo perso una trentina di chili, ma aderendo a questa sorta di primo campionato di Bosnia, evitammo di essere spediti al fronte».

Come si concluse il ritorno allo Sloboda?

«Giocammo al palazzo piccolo di Skenderija, che teneva all’epoca circa duemila persone. Perdemmo la prima partita con il Cesko Sarajevo, ma la squadra di casa perse con lo Zenica. Per vincere il titolo avremmo dovuto vincere di 7 punti nel terzo match e così andò. Vincemmo di 9, se ricordo bene e diventammo i primi campioni nazionali della Bosnia, con tanto di medaglia, che ancora conservo. La settimana successiva giocammo a Tuzla la coppa nazionale e vincemmo pure quella, tanto da meritarci il playoff con la Pop84 Spalato, la ex Jugoplastika tre volte campione d’Europa, per accedere all’Eurolega. Io a quel punto avevo 37 anni e non avevo più la forza per affrontare un simile impegno, tanto che tornai a giocare con lo Zrinski».

Qui ci avviciniamo all’epilogo feltrino?

«In effetti, Zoran Markovic, che aveva la moglie di cognome Piccolotto, con la nonna originaria di Siror, era già venuto in Italia, iniziando a lavorare il marmo. Zoran parlò con Zdenko e disse che avrebbe potuto organizzare un torneo per noi nell’aprile del 1995. Organizzarono il nostro arrivo con Giorgio Citterio presidente del Feltre Basket, Alberto Alberton, Vittorio Lusa della Caritas, il signor Sommacal dell’agenzia viaggi, il cui figlio Christian giocava con il Feltre, il signor Zannin, papà di Marco e Michele, anche loro giocatori del Feltre e responsabile del personale alla LTS e tante altre persone che ci aiutarono, come Marcello Reatto che ci fece avere quaderni e penne per studiare l’italiano e don Liviano che ci lasciò una stanza in parrocchia al Boscariz, dove Vittorio Lusa ci faceva le prime lezioni di italiano. Dopo poco si aprì la possibilità di rimanere qui e con l’aiuto di tutti risolvemmo i problemi di documenti, perché i passaporti erano rimasti in possesso dei dirigenti dello Zrinski, ricevemmo un primo permesso di soggiorno, venimmo ospitati prima alla Caritas e al Carenzoni, poi, le signore Alberton e Citterio ci trovarono un appartamento e grazie a Zannin il 22 maggio eravamo già assunti alla LTS, dove da allora ho lavorato ininterrottamente, per andare in pensione il prossimo 1° di febbraio».

E adesso quale futuro attende Drago Zec?

«Avrei il piacere di tornare ad allenare, ho allenato le squadre giovanili fino al 2021 e mi piacerebbe tornare. Però, la mentalità con cui io sono cresciuto in Jugoslavia un po’ cozza con le attuali generazioni. Va curata la tecnica, anche a costo di fare cose noiose. Io ero abituato a fermarmi dopo l’allenamento e fare cento canestri. Solo una volta realizzati i cento canestri, potevo andare a casa. Qui ho allenato ragazzi di talento, però, serve il sacrificio, senza di quello non sei un giocatore di basket».

Un’ultima domanda di rito viene solitamente posta a chi ha vissuto l’esperienza della guerra nei Balcani e con il massimo rispetto, al termine di un lungo racconto, ci sentiamo di porla anche a Drago Zec. Qual è la sua nazionalità? Jugoslava, bosniaca, italiana?

«Io sono nato in Jugoslavia e sono un cittadino jugoslavo. Ma sono anche italiano, perché tutti in famiglia abbiamo preso la cittadinanza del paese che ci ha accolto, mia moglie, Dragan, Vanja e io».

Živeli Drago. 

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