Bomber Ravanelli infiamma i tifosi dello Juve Club

L’attaccante è stato ospite al Gallomania «Il Bayern è forte, ma possiamo farcela»
Fabrizio Ravanelli con il direttivo della Juventus Club Belluno Pavel Nedved
Fabrizio Ravanelli con il direttivo della Juventus Club Belluno Pavel Nedved

BELLUNO. «Il Bayern Monaco è forte, ma la Juventus è in grado di andare in ogni campo per combattere alla pari».

Parole e musica di Fabrizio Ravanelli, il popolare “Penna Bianca”, che venerdì sera ha infiammato la festa dello Juventus Club Belluno Pavel Nedved. Il campione di Perugia, rimasto nei cuori dei tifosi bianconeri soprattutto per il gol a Roma nella finale di Champions League, è stato disponibilissimo per tre ore, ospite (nella sede sociale al Gallomania) del club bellunese presieduto da Sebastiano Cesca, che conta quasi 500 iscritti e che lo scorso anno è stato sempre presente, sia a Torino che fuori casa.

Moltissimi autografi, poi un’oretta di chiacchierata a ruota libera con i tifosi, parlando di tutto. Dallo stile Juve, ai campioni e allenatori che ha incontrato nella sua carriera, alla differenza fra l’Italia e l’Inghilterra nel calcio, passando anche dalla proposta di ritirare i numeri di maglia di Del Piero e Scirea.

Ma quindi come finisce a Monaco?

«Mi auguro ovviamente che la Juve passi il turno – sorride – il Bayern a Torino ha fatto 60’ di calcio spaziale, sempre in raddoppio, con la Juve in grande difficoltà, ma che forse aveva avuto troppo rispetto per i tedeschi, giocando troppo bassa. Il vero volto è uscito quando la frittata era ormai fatta e dopo il 2-2 la Juve poteva anche vincerla».

Nato 5 anni fa, il presidente è il longaronese Sebastiano Cesca
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Come si prepara una partita del genere?

«Allegri deve essere bravo a far capire alla squadra gli errori fatti in quei 60’, se ci riesce l’impresa è possibile. Ma dipenderà molto da come verrà interpretata la gara, perché bisogna essere bravi a difendere, ma anche a ripartire per fargli male. È fondamentale recuperare uno come Marchisio».

In molti dicono che la Juve di quest’anno è più forte di quella che è arrivata in finale a Berlino.

«Sono due squadre molto forti. Quello che è certo è che la dirigenza sta dando un futuro a questa rosa, con una programmazione intelligente. Gente come Dybala o Alex Sandro sono giovani, ma sono già tra i migliori al mondo nel loro ruolo».

Ora il duello per lo scudetto sembra essere Juve – Napoli.

«Io non darei per morte le altre, che non sono molto lontane. Il Napoli gioca sempre con gli stessi giocatori e forse potrebbe pagarlo. La Coppa toglie energie, ma la rosa della Juve dà garanzie».

Si parla molto del caso Totti.

«Difficile giudicare da fuori. Certo che un giocatore deve capire quando dire basta. Ma lo dico in generale, non riferito a Totti”.

Inevitabile parlare di quel 22 maggio 1996, la finale di Champions vinta a Roma contro l’Ajax.

«È indelebile quella notte, che mi resterà per sempre nel cuore. Ovunque vado, tutti me la ricordano e i tifosi juventini sono dappertutto. Difficile descrivere le emozioni dopo il gol, perché quella coppa è la ciliegina sulla torta di una carriera per qualunque giocatore. Ho realizzato davvero cosa ho fatto solo dopo qualche mese».

Cosa ti resta di quegli anni alla Juventus e cos’è lo stile Juve?

«Sono stati anni pieni di soddisfazioni, ho un grande ricordo, sia da giocatore, sia da allenatore delle giovanili. La Juve ti resta dentro. Lo stile Juve lo vedi invece nel parlare, nel vestire, nel comportarti. È una scuola di vita. Scherzando, posso dire che è come un servizio militare. Non si può sgarrare».

I quattro scudetti di fila sono arrivati con il ritorno della famiglia Agnelli al timone. È un caso? E forse si trascura l’importanza di un dirigente come Marotta.

«Marotta lo reputo molto capace, ma anche lui aveva sbagliato quando ha scelto Del Neri. Andrea Agnelli ha dato la svolta, ma non sono i dirigenti e i giocatori a fare grande la Juve, ma è l’ambiente Juve a renderli grandi».

Essere alla Juventus è stressante?

«È chiaro che è una società in cui sei giudicato per tutto quello che fai, anche se rispetto ad ora, con tutti questo social network, potevi anche vivere la tua vita. Potevi andare a cena con la squadra senza problemi. Potevi anche mandare a quel paese l’allenatore o un avversario, senza che nessuno se ne accorgesse».

Vincere la Champions ed essere ceduto…

«Non avrei mai pensato che potesse accadere, ero reduce anche da due classifiche marcatori vinte. È stato difficile lasciare Torino, per me e la mia famiglia, ma la Juve ha questa gestione, non ha sentimentalismi. Guarda al bilancio».

A quei tempi c’era un certo Luciano Moggi.

«Moggi ha fatto la storia della Juve. È un dirigente che capisce molto di calcio, poi quello che ha fatto non lo sapremo mai. Quello che mi sento di dire è che non è stato l’unico a comportarsi in un certo modo, se mai lo ha fatto».

Quale è la maggior differenza tra la serie A rispetto alla Premier League?

«In Inghilterra c’è meno pressione e non c’è dubbio che quello sia il campionato più bello, oltre che il più corretto. Ma oltre all’aspetto campo, è bellissimo anche fuori dal campo. Si va in uno stadio, sedendosi vicino a un tifoso avversario senza nessun problema. Qui in Italia dobbiamo arrivare a questo, ma c’è molta strada da fare».

L’Inghilterra è il probabile futuro di Antonio Conte, che andrà al Chelsea.

«Ha dimostrato di essere fortissimo, in una Juve da ricostruire dopo due settimi posti. Dispiace un po’ il modo in cui ha lasciato la Juve, ma sono certo che se n’è un po’ pentito. Ora in Nazionale lo vedo un po’ triste, vuole tornare in un club importante».

Allegri e il dopo Conte…

«È stato molto intelligente, entrando alla Juve in punta di piedi, con grande umiltà, portando piano piano il suo modo di fare calcio».

Quando è nato quel modo di esultare, con la maglietta a coprire il viso?

«È stata una cosa improvvisata. Giocavamo contro il Napoli e faticavamo a segnare. Mister Lippi ci disse di stare tranquilli e che potevamo vincere anche all’ultimo minuto, perché eravamo undici campioni. Feci gol a sette minuti dalla fine e mi venne istintivo».

Meglio Lippi o meglio Trapattoni?

«Sono molto diversi ed entrambi molto preparati. Il Trap era una grande persona, Lippi era un vero vincente, magari un po’ permaloso, ma capace come pochi a motivarti. Quello che ha vinto parla per lui».

Hai giocato con un certo Paulo Sousa, ora a Firenze.

«È molto intelligente e farà bene anche in futuro? Sarebbe buono anche per la Juve».

Il gol più bello di Ravanelli?

«Troppo facile dire quello in finale a Roma. Ce n’è uno bellissimo a Napoli, ma quello in un Parma-Juve credo sia il migliore».

Ha giocato con grandi campioni? Quale il più forte?

«Non ho dubbi, Roberto Baggio, che per qualità e tecnica era unico. Quando la Juve alzò al cielo la Coppa Uefa nel 1993 e lui il pallone d’oro, lui quella coppa la vinse praticamente da solo».

E i difensori più forti?

«In Italia Vierchowod, uno durissimo e difficilissimo da superare. Per gli stranieri, Ferdinand del Manchester era pazzesco».

Nel calcio non c’è l’abitudine di ritirare il numero di maglia usato da un campionissimo.

«Io credo invece che sarebbe giusto. Nel caso della Juventus, il 6 di Scirea o il 10 di Del Piero non dovrebbero più essere usati».

Ma c’è un giocatore simbolo della Juve?

«Se dicessi Del Piero, dimenticherei Buffon, per esempio. Più che i giocatori, è importante la Juve».

Ravanelli parla anche della sua infanzia, quando il calcio era il suo maggiore divertimento.

«Quando ero piccolo non c’era tutta la tecnologia che c’è adesso, quindi il calcio era tutto per noi, soprattutto in un paese di duemila abitanti come era il mio. Giocavamo a calcio tutti i giorni. Il divertimento è alla base di questo sport, sia da piccolo, sia quando riesci a farlo come un lavoro. Ma senza perdere di vista i valori importanti della vita. Io ho avuto la fortuna di andare a Perugia a sedici anni, con un contratto da professionista. Avevo lasciato la scuola, ma in seguito avevo concluso gli studi prendendo il diploma da geometra. Non ho vissuto molto la mia gioventù, ma ho rinunciato volentieri a delle serate in discoteca, che facevano i miei coetanei”.

Il concetto dello studio è molto ricorrente.

«Ho tre figli maschi, di 20, 16 e 11 anni e tutti e tre amano il calcio. Ma sanno che non devono perdere di vista la concretezza della vita, perché lo studio è basilare per la loro crescita».

Cosa avrebbe fatto Ravanelli senza calcio?

«Avrei cercato di fare l’Isef. Per il futuro, invece, spero arrivi qualche offerta concreta per allenare, ma con un buon progetto».

Per chi faceva il tifo il bambino Ravanelli?

«Sempre stato juventino. Il bianconero fa parte di me e ho fatto fatica a giocare contro la Juve quando è successo. In famiglia siamo tutti juventini, ogni domenica i miei figli partono da Perugia per essere alla Stadium».

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