Bonan: «Lasciamo crescere i nostri giovani»

. In queste settimane ci siamo occupati a più riprese di giovani atleti bellunesi, alcuni veri e propri talenti, che per le motivazioni più varie – dai problemi fisici alla difficoltà di avere certezze per il futuro – hanno deciso di mettere la parola “fine” alla loro carriera. Sul tema dell’abbandono dell’attività sportiva in giovane età interviene Modesto Bonan, feltrino, atleta azzurro nelle siepi negli anni Ottanta, poi insegnante di educazione fisica, preparatore atletico di diversi sport (dall’atletica al calcio) e saggista (al suo attivo due pubblicazioni, “Dietro la rete” e “1-2-3... palla! ”).
Bonan, quanti giovani talenti ha visto perdersi?
«Prima di rispondere a questa domanda è necessario chiarire chi è identificato come un talento sportivo. È un individuo dotato di un complesso di capacità e abilità tali da fornire performance fisiche e mentali superiori alla media. Se prendiamo un ragazzino, esse devono ancora manifestarsi, ma si intravedono in lui notevoli capacità di apprendimento, applicazione delle tecniche in modo corretto e reazione in modo molto positivo agli stimoli dell’allenamento. Genericamente chi esegue in modo elegante, efficace, rapido quelle azioni che alla maggior parte dei coetanei non riesce oppure le fa goffamente e con difficoltà. Per estensione chi è capace di assorbire carichi di lavoro, di resistere agli stress della gara, chi è dotato di disponibilità e genialità. Talenti si nasce, non si diventa. Pertanto un talento non è altro che colui che ha saputo scegliere per bene i propri genitori. Fatta questa premessa, di talenti che si sono persi per strada la lista è infinita in tutte le discipline. Qualcuno è passato sotto i miei occhi, sia a livello scolastico che sportivo. Mi sono occupato di giovani in atletica e nel calcio per 35 anni. Molti avevano i mezzi per emergere, ma come si dice in gergo si sono bruciati».
Quali le cause?
«Le ragioni sono molteplici. Cercando una sintesi potremmo dire che sicuramente influisce la precocità nella ricerca della prestazione senza rispettare l’età biologica. Molto spesso chi segue il talento adotta una logica esageratamente prestativa ad una più corretta logica formativa. Le conseguenze sono che dopo qualche anno abbiamo ragazzi scarichi psicologicamente e “bruciati” da “cattivo” allenamento. A volte si può incorrere in errori di valutazione dettati dalla precocità del ragazzo. Essere “grandi” e “formati fisicamente” da piccoli è utile nell’immediato, dannoso in seguito. Chi si dedica all’allenamento dei ragazzi non può non tenere conto delle trasformazioni adolescenziali e dei parametri antropometrici, che siano essi favorevoli o sfavorevoli. La specializzazione precoce impone un lavoro smisurato ed esagerato per l’età. Questo percorso specialistico procura stress da allenamento e da gara che alcuni soggetti non sono in grado di sostenere. Altri motivi di abbandono possono essere aspettative eccessive da parte di genitori e/o allenatori, mancanza di successo, traumi sportivi, interpretare il proprio sport come “lavoro e sacrificio”, invece di “sfida e piacere”».
Che cosa resta nei ragazzi che abbandonano? Rabbia, delusione, indifferenza?
«Escludo a priori che chi abbandona sia indifferente. È una grossissima delusione, condita con la rabbia per non avere raggiunto il sogno che nel corso degli anni si era fatto. Il disagio morale provocato da un risultato contrario alle speranze spesso fa abbandonare per sempre la pratica dello sport. Negli adolescenti e post adolescenti questa emorragia è fisiologica, ma si può attenuare. Perché un conto è abbandonare uno sport, un altro è abbandonare lo sport».
Quali sono gli sport più a rischio di perdere ragazzi?
«Non vorrei addentrarmi in un argomento difficile e spigoloso. Ci sono statistiche che parlano chiaro. Ci sono discipline e allenatori che, pur ricercando il campioncino, hanno maggiore rispetto della crescita dei ragazzi, altre discipline e altri tecnici che non hanno una visione unitaria del continuo processo di crescita. Lo sport non può essere praticato se non si sviluppa adeguatamente la motricità di base con esercitazioni multilaterali e polivalenti. Chi le ha esercitate ha maggiori possibilità di miglioramento delle abilità e quindi maggiori opportunità di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato. Credo che sia più facile “perdere” futuri atleti in discipline individuali dove il confronto è testa a testa o fianco a fianco perché il valore del ragazzo emerge immediatamente ed è confrontabile. Pensiamo all’atletica dove con metro e cronometro ti puoi misurare con il mondo intero».
C’è un modo per evitare l’abbandono dell’agonismo e più in generale dell’attività sportiva?
«Azzardare soluzioni non è nel mio stile. Dico che chi allena deve cercare di essere un modello, cioè avere conoscenze e competenze, possedere tecniche di lavoro, interessare, coinvolgere, comunicare, comprendere, avere un’etica. Deve dare ai ragazzi modelli di correttezza, stimolarli ad una corretta visione dell’agonismo, incentivarli a tollerare la fatica, ad attendere con pazienza i miglioramenti, i risultati. Farli ragionare sulla vittoria e sulla sconfitta e quindi far sì che imparino a perdere senza ritenersi dei perdenti e a vincere senza considerarsi dei superman. Sostanzialmente è un continuo dispensare valori. Lo sport è un facile dispensatore di valori. Basti pensare al valore del gruppo, della squadra, della stessa competizione, dell’impegno, del rispetto delle regole del gioco e del gioco stesso, avversari compresi. Un’ultima cosa ritengo importante: non mitizzare, ma riflettere sullo sport come professione. Lo sport per essere campioni esiste, ma per pochi. Parliamo di pochissime centinaia a fronte di milioni di bambini e bambine che iniziano a praticarlo da piccoli». —
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