Coppa, il chirurgo con l’amore per il rugby. «Mi piace questa sfida in periodo Covid»

L’allenatore del Feltre si divide tra il campo e il lavoro all’ospedale Santa Maria del Prato. «Con la passione si gestisce il doppio impegno»
Giovanni Pelosio
Federico Coppa all'ospedale di Feltre durante una visita di Luca Zaia
Federico Coppa all'ospedale di Feltre durante una visita di Luca Zaia

Da una mischia al bisturi, nello spazio di pochi istanti.

Non è raro vedere Federico Coppa dirigere un allenamento e, da lì a qualche minuto, recarsi al Santa Maria del Prato, dove svolge la professione di medico chirurgo. Da sempre, l’ex mediano di mischia del Feltre e dei Ruggers Tarvisium ha saputo bilanciare l’impegno lavorativo con la passione per la palla ovale ed è forse questo invidiabile equilibrio, tra dovere e piacere, che gli ha consentito di rispondere presente alla chiamata del Rugby Feltre, quando si è trattato di individuare il sostituto di Andrea Barp, alla guida della formazione seniores, nel pieno dell’emergenza legata al covid-19.

Un amore per il rugby nato non prestissimo.

«Ho iniziato a giocare con il Feltre in under 13 e sono capitato fin da subito in un gruppo affiatato e forte, con Aspodello, Dal Sasso, Paulin e Piolo, tra gli altri. A 17 anni ho esordito in prima squadra, festeggiando la promozione dalla C alla B, nell’anno in cui era giunto a giocare in maglia granata Iain Frew. Ho fatto tutto il percorso nelle squadre giovanili della nazionale, dall’under 15 all’under 19, tanto che, quando sono andato a Padova all’università, ho avuto la possibilità di fermarmi lì a giocare a rugby, ma a Feltre avevamo una squadra di qualità, i miei amici erano a Feltre e allora ho deciso di rimanere qui, dove sfiorammo la promozione in serie A».

Alla maglia azzurra è legato anche quel clamoroso successo a Twickenham, datato 27 marzo 1985, quali ricordi hai?

«Ero alla prima esperienza in Nazionale, entrai a far parte di un gruppo che, come mediani di mischia, aveva anche Umberto Casellato e un ragazzo del Petrarca Padova. Non è questo l’unico ricordo splendido con la maglia dell’Italia, per esempio l’anno successivo perdemmo 6-3 a Rovigo con l’Australia. Tornando alla vittoria sul suolo inglese, si può solo immaginare con quanta emozione entrammo in quello stadio, che fino ad allora avevamo sentito raccontare solamente da Paolo Rosi alla televisione o avevamo letto sui libri e sui giornali. Quella era una Nazionale forte, che annoverava anche Moscardi, che poi è stato capitano dell’Italia e Manteri. Fu un evento che fece scalpore, innanzi tutto, perché era strano che facessero giocare una selezione giovanile a Twickenham ma soprattutto perché vincemmo per 6-3».

Non c’è stato solo il granata del Feltre nella tua vita rugbistica, ma anche il rosso delle maglie della Tarvisium?

«Quando finì il ciclo di quella squadra feltrina, che aveva sfiorato la A, i ragazzi della mia generazione si trovarono un po’ a metà, tra quelli che avevano smesso e le nuove generazioni, che stavano crescendo. Decisi, allora, di prendere un periodo di riposo, in realtà, ci fu la possibilità di andare a Treviso, assieme a Paulin e Piolo e trascorremmo due campionati di A meravigliosi, arrivando ai play off e sfiorando la promozione nella massima serie».

Come hai conciliato lo sport e lo studio e cosa rispondi ai tuoi atleti, quando sostengono di non poter affrontare il doppio impegno?

«Era un rugby diverso e per questo motivo era possibile, con sacrificio, giocare in A di rugby e studiare. Dividevo la mia vita tra l’università a Padova, il campo da rugby a Treviso, la famiglia e gli amici a Feltre. Bisognava avere tanta passione, ma si poteva fare, tanti ragazzi lo facevano. Però, era un’epoca completamente diversa. Io non ho fatto un giorno di palestra in vita mia, ora sarebbe impossibile in A, ma anche in C. Se non gestisci il tuo fisico, vai incontro a brutte sorprese. Non giudico mai un ragazzo che mi dice che non ce la può fare, certo con la volontà si può tutto, ma rispetto le scelte. Anzi, Feltre è periferica, non abbiamo l’università e abbiamo risorse limitate, non dobbiamo preoccuparci se i ragazzi a 19 anni vogliono andare a giocare nella città dove studiano o in club più importanti, noi svolgiamo il nostro compito sociale finché finiscono le scuole superiori e poi, quando avranno finito gli studi, dovranno sapere che qui troveranno sempre una società solida».

Non ti piacciono certo le sfide semplici, da medico, in piena emergenza covid, hai preso in mano le redini della squadra seniores.

«È stato un punto di arrivo, di un percorso che mi ha visto in precedenza allenare le giovanili per un paio di cicli. Va gestito il momento, ma non mi preoccupa, mi piace questo tipo di sfida, perché sono un allenatore che ama costruire i rapporti con i propri giocatori, lavorare con loro anche fuori dal campo di allenamento. L’incertezza complica il lavoro, senza dubbio, ma tutto sommato giocare poche partite, con tempi lunghi, permette di fare le cose con calma e i tempi dilatati ci favoriscono. Il progetto non è a brevissimo termine, abbiamo un gruppo giovane, che sta imparando e potrà fare bene. Le variabili sono troppe e totalmente diversificate, per porsi degli obiettivi. Non possiamo fare altro che vivere domenica per domenica e alla fine faremo i conti. Abbiamo qualità tra i più giovani, ma anche tra coloro che hanno tenuto in piedi il Rugby Feltre negli ultimi cinque, sei anni. Ho trovato dei ragazzi che hanno doti tecniche, ma soprattutto morali importanti, ragazzi con spirito e attaccamento alla maglia, che mi hanno stupito e sono importantissimi, perché mostrano ai più giovani come ci si deve allenare, sia tecnicamente, sia con l’approccio corretto».

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