Corrado Pilat da Safforze al Sei Nazioni

Per il numero 14 una carriera indimenticabile condita anche da due scudetti vinti a Treviso 

BELLUNO. Il numero 14 dell’Italia è schierato profondo, l’azione partirà dal lato opposto al suo, lui è posizionato sotto la tribuna autorità, l’unica coperta, sente gli occhi degli appassionati su di lui e sui suoi compagni, percepisce i colori azzurro e verde a riempire le tribune, ma la sua attenzione è solamente sulle maglie azzurre e verdi che ci sono in campo. Di fronte ha la linea dei trequarti del Trifoglio mandata in campo da Warren Gatland, che annovera quella carogna, sportivamente parlando, di Stringer, il quale compone la mediana assieme all’altezzosa classe di O’Gara, i due centri sono elementi del calibro di Mullins e Henderson, dalla sua parte all’ala c’è Howe, che viene dall’Ulster, terra dura, che ti tempra e dall’altra Shane Horgan, uno grande e grosso che non finisce mai e che ha due quadricipiti, che quando pesta sull’erba, lo fanno volare.



Poi, c’è l’estremo, c’è Girvan Dempsey, da Dublino, manco a dirlo bandiera del Leinster. Moscardi lancia l’ovale dalla rimessa laterale, Checchinato porta a terra il pallone, ma la maul viene subito disarcionata, ci sono due rilanci veloci dei nostri e poi Pez fa viaggiare Stoica, il quale trova inaspettate praterie ad attenderlo, la linea di difesa irlandese è rotta, Martin riceve l’ovale e lo rigioca ancora per Stoica, poi via verso Denis Dallan e da lì ancora verso la linea dell’out sotto la tribuna autorità, lì dov’è posizionato il nostro numero 14, qualche passo dentro i ventidue avversari, il dirimpettaio Howe è assorbito dalla manovra azzurra e quando la palla viene abbrancata dall’ala della Benetton, che si aiuta pure con la testa per non farla cadere, la segnatura è ormai cosa fatta, tre, quattro pestate con i piedi e, quindi, il volo verso l’area di meta, con il disperato tentativo di Dempsey che non sortisce alcun effetto.

L’Italia è in vantaggio grazie alla meta di Corrado, Corrado Pilat, come ormai avrete capito, che ha concretizzato 26” di rugby spettacolare degli azzurri. Tutto bene, insomma, si preannuncia un pomeriggio da sogno. Invece, non è così. Pilat tarda a rialzarsi, il placcaggio di Dempsey, inutile ai fini della segnatura, ha piegato la caviglia sinistra del trequarti bellunese, che viene medicato, prova a rientrare e deve alzare bandiera bianca, lasciando il posto a Ezio Galon. Neppure all’Italia andrà troppo bene, con gli irlandesi che finiranno per vincere per 41-22.

Da lì in avanti l’esperienza in maglia azzurra si colorerà di altri 4 minuti nell’ultima partita di quel Sei Nazioni, quella con il Galles. A Brad Johnstone subentra John Kirwan e per Corrado Pilat le porte della nazionale si chiudono, dopo 7 presenze e 2 mete.

«John Kirwan mi avrebbe chiamato», chiarisce subito Corrado Pilat, «con lui avevo e ho un rapporto buonissimo, ma purtroppo mi feci male al ginocchio. Pensa che nel 2005 mi avrebbe in ogni caso voluto nello staff tecnico, come skill coach del gioco al piede, ma non se ne fece nulla neppure quella volta, perché venne esonerato e al suo posto arrivò Berbizier».



Da Belluno al Sei Nazioni, dalla maglia gialloblu a quella della nazionale, dalle pagine sulla stampa locale alla BBC in diretta, qual è stato il tuo segreto?

«L’ho spiegato ai genitori dei ragazzi che frequentano l’Accademia under 18 di Treviso, con i nostri giovani parliamo sempre di obiettivi, invece nessuno parla loro di sogni. Ci si confronta sempre sui traguardi, trasformando anche la passione in qualcosa di estremamente selettivo, invece bisogna di tanto in tanto aprire quel benedetto cassetto e vedere cosa c’è dentro. Sono le emozioni che smuovono gli ostacoli più grandi».

Cosa c’era nel cassetto di Corrado Pilat?

«Il mio sogno era giocare in nazionale, per raggiungere quel sogno mi allenavo quattro volte alla settimana, due con i compagni, una in palestra e una a piazzare. Avevo capito che l’allenamento era importante per essere poi efficaci in partita. Già a 14 anni non avevo bisogno che mi dicessero di allenarmi, perché mi ero reso conto da solo che il lavoro ti dà risultati e poi in campo vedi la differenza con compagni e avversari. Del resto è quello che fanno i grandi campioni, per cui se i fenomeni si sacrificano e si allenano curando i dettagli, non vedo perché non dovrebbero farlo i nostri ragazzi. I sogni possono essere equiparati alle proprie ambizioni, l’importante è che i nostri ragazzi coltivino un sogno, che può essere anche solo quello di giocare in selezione, o di vestire la maglia della prima squadra».



Hai bruciato le tappe, esordendo molto presto a Treviso e praticamente subito in nazionale.

«Da Belluno sono andato a Bologna e poi alla Benetton. Ho esordito andando in meta e vincendo con l’Irlanda a Bologna, poi abbiamo battuto la Scozia e perso di misura in Galles, facevo parte insomma di una grande nazionale. Avevamo individualità di grandissimo livello, basti pensare che in quegli anni con la Benetton vincemmo sia all’andata, sia al ritorno con gli Harlequins».

Qualche dato per comprendere la carriera agonistica di Corrado Pilat bisogna pur snocciolarlo: due scudetti, nel 1999 e nel 2001 con la Benetton Treviso, il primo titolo italiano viene impreziosito dalla meta in finale, mentre il secondo dal titolo di miglior marcatore del campionato, segnando pure 18 punti dalla piazzola nella finalissima al Calvisano. Nelle coppe europee gioca per ventisette volte, realizzando 239 punti. Oggi che sei allenatore, quanto hanno influito i tecnici che hai avuto?

«Ho cercato di imparare da tutti. A Treviso avevamo la scuola francese, in particolare io ho avuto Gajan e Teixidor, che proseguivano la strada indicata da Pierre Villepreux, i cui insegnamenti sono ancora molto attuali, tanto che da lì sono poi usciti allenatori come George Coste, che portò una cura particolare per la difesa. Per quanto riguarda il momento che sta vivendo il nostro rugby, penso che il pensiero di O’Shea e dell’attuale staff tecnico sia perfetto per consentire all’Italia di compiere un salto di qualità».

Non hai mai condizionato la tua carriera con scelte scontate, a maglie prestigiose hai preferito l’università, poi quando avresti potuto strappare qualche buon contratto, ti sei messo alla prova in Inghilterra, ma lontano dai riflettori.

«Dopo Treviso sono andato a Parma, dove mi sono rotto il ginocchio e ho recuperato con calma successivamente al Bologna, raggiungendo una bella salvezza. Per via dell’università nel passato avevo rinunciato ad alcune opportunità, come quelle provenienti dal Leicester o dal Leeds, però, mi era rimasta la voglia di provare un’esperienza in un mondo diverso e così sono andato al Barking, in Second division, la società nella quale mosse i primi passi il mitico pilone Jason Leonard. È stato un anno importante, molto formativo, che mi è servito tanto perché lì si mastica rugby veramente, proprio a livello culturale».

Ti è costato anteporre lo studio alla carriera rugbistica, ma non sembri pentito?

«La priorità era concludere l’Isef, anche a costo di rinunciare a qualche esperienza rugbistica. Ora che lavoro con l’Accademia, ai ragazzi cerco proprio di trasmettere questo aspetto, in primo luogo c’è lo studio, perché un giocatore che riesce a conciliare scuola e sport potrà crescere molto anche dentro il campo, perché andar bene con lo studio aiuta a essere sereni sul rettangolo di gioco».

Tornato in Italia, sfiori un’impresa clamorosa nella finale del campionato 2006/2007, quando con Viadana vai vicinissimo al terzo scudetto della tua carriera.

«Ci troviamo in finale con Treviso, conduciamo per tutta la partita e segno tutti e ventiquattro i punti della mia squadra, venendo sconfitti solo negli ultimi minuti dei tempi supplementari, peccato, perché lo scudetto ci sarebbe stato veramente bene, a coronamento della carriera».

La tua vita di allenatore come si suddivide?

«Sono responsabile dell’area 4, ossia quella che comprende Belluno, Treviso nord, Bassano e Borgo Valsugana per il Comitato veneto, all’Accademia under 18 di Treviso sono assistente allenatore e mi occupo anche di tecnica individuale. Da un po’ seguo pure Tommaso Allan della Benetton e della nazionale, per il gioco al piede. Recentemente ho ricevuto un nuovo incarico per la Fir, ossia seguire i giocatori di interesse nazionale, che giocano nel campionato di Eccellenza e poi sono coordinatore tecnico del rugby di base al Belluno».

Qual è lo stato del rugby provinciale? Le tre società sembrano gradire molto la tua presenza e i tuoi consigli, tanto da rappresentare un collegamento importante tra le nostre tre realtà.

«Mi fa piacere essere in contatto con tutte e tre. I centri di formazione della Fir hanno avviato il percorso di condivisione tra le nostre società. Dal canto mio, credo molto nelle potenzialità che ci sono in provincia, abbiamo un sacco di atleti, che hanno però bisogno di allenatori preparati, perché solo così diventeranno giocatori preparati. Dobbiamo essere mentalmente più aperti, in casa siamo forti, mentre in trasferta finiamo spesso per apparire spaesati. Dobbiamo, invece, capire che possiamo esprimere un grande rugby, perché la gente di montagna può arrivare a grandi risultati. I miei figli Lorenzo e Leonardo giocano con il Feltre e vedo che nella società granata ci credono tanto e stanno facendo le scelte giuste per poter dare la possibilità ai ragazzi di migliorarsi. La stessa cosa posso dirla per il Belluno e l’Alpago».

Dove dobbiamo migliorare come movimento?

«Bisogna lavorare tanto sui tecnici e sulla specificità dei ruoli. 9 e 10 devono saper fare tutto, stessa cosa il tallonatore, non può considerarsi un corpo estraneo al resto della prima linea. Detto questo, dobbiamo crescere tantissimo sull’intensità. Il progetto del Comitato veneto che porta le selezioni delle aree geografiche ad affrontarsi è importante, perché consente ai ragazzi di diversa provenienza di confrontarsi. Con l’area 4 abbiamo vinto con Padova e Rovigo, a livello di under 16 e 18 e affronteremo Treviso nella finalissima. Con le under 14 lavoriamo per migliorare il livello degli allenamenti. Tutto questo sforzo serve per portare i ragazzi a essere molto più veloci nel leggere le situazioni di gioco e saperle sfruttare, per questo gli allenamenti sono fondamentali: dobbiamo, tutti assieme, tutte e 3 le società, essere in grado di lavorare a un’intensità di molto superiore, se poi vogliamo essere performanti in gara».
 

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