Dalla “Panolada” in Spagna al derby di Atene «Più c’era frastuono, più mi caricavo»

I ricordi
Come tutti gli arbitri di successo Reatto ha avuto momenti positivi e altri meno, il 16 ottobre 1993 è rimasto nella sua mente. «Quel giorno arbitrai il derby di Bologna e fischiai un fallo in attacco a Dan Gay, un clear-out, che oggi viene comunemente fischiato, a partire dall’Nba. Venni elogiato a livello tecnico, ma massacrato da stampa e tifosi. Non arbitrai più il derby di Bologna fino al 2009. La domenica successiva i tifosi della Virtus, a vantaggio della quale era andata quella decisione, esposero uno striscione “Reatto fan club”, i fortitudini replicarono di lì a poco con un altro striscione “Reatto fan c…”, senza dubbio meno carino, ma che mi fece ridere molto. Non è stata questa l’unica relazione tesa della mia vita nel basket, per esempio non ho arbitrato Siena per oltre sette anni».
Qual è il podio delle sue migliori partite?
«Ci metto senz’altro il derby di Bologna del 2009, che tornai appunto ad arbitrare dopo 16 anni: a Casalecchio la Fortitudo vinse di due/tre punti al supplementare e non ci fu nessuna protesta. Entrai in campo per far vedere loro chi ero. Un’altra ottima prestazione la fornii nella semifinale di Eurolega del 2001 tra Aek Atene e Vitoria, un’altra ancora che ricordo fu la finale di Eurolega femminile a Brno, al termine della quale venni avvicinato dal responsabile degli arbitri della Wnba, che mi propose di trasferirmi negli Usa ad arbitrare».
Ha arbitrato nei più grandi palazzetti, italiani ed europei, quali ricordi porta dentro la valigia dei ricordi?
«Il derby di Atene di fronte a 17 mila persone è qualcosa di difficilmente descrivibile, ma non mi facevo influenzare, nel senso che, una volta entrato al palazzetto e sentiti i primi boati, l’adrenalina saliva e con essa la concentrazione: più era il frastuono, più mi caricavo. Il momento più imbarazzante l’ho vissuto, invece, al palazzo del Barcellona. In Spagna non ti contestano con gli insulti, se sbagli estraggono dalla tasca un fazzoletto bianco ed esprimono il dissenso sventolandolo al tuo indirizzo, in quel gesto che è noto come “panolada”. Ecco, trovarmi nel silenzio più assoluto, di fronte a 9 mila persone che sventolavano il fazzoletto al mio indirizzo, mi fece comprendere che effettivamente qualche errore l’avevo commesso e mi sentii solo. In Italia ricordo dei catini infuocati come il vecchio palazzo dello sport di Pesaro o quello di Livorno, dove giocava l’Enichem e la Pallacanestro Livorno».
Ha visto da vicino anche il basket americano, come nacque il rapporto e quali impressioni ne ha ricavato?
«Ho iniziato a conoscere il mondo Nba a Bormio, con gli eventi Nike e il Valtellina circuit, quando ebbi l’opportunità di arbitrare anche Michael Jordan. Successivamente, curavo la parte arbitrale dei camp Nba alla Ghirada, dedicati ai migliori under 20 europei e africani. Lì ho conosciuto Don Nelson, che all’epoca era ai Mavericks, e per quattro estati sono andato alle Summer league, due volte a Dallas, un anno a Philadelphia e un anno a Las Vegas. Dovevo andare senza che si sapesse in Italia, altrimenti mi avrebbero squalificato e così mi autorizzava direttamente il capo della Fiba europea. Mi sono confrontato con quel livello, l’America è una bella scoperta, per il modo veramente diverso di lavorare nello sport, con una professionalità e un rispetto fuori dal comune, basti pensare che i giocatori si rivolgono all’arbitro con un “excuse me Sir” e non con epiteti poco educati. Bob Mckillop mi ha accompagnato nei college e in quel modo ho anche perfezionato il mio modo di arbitrare. Il tutto, credo valga la pena evidenziarlo, sempre a spese mie».
Per una carriera così luminosa, c’è un ingrediente segreto?
«Mia moglie Mara. Pensate che in Italia era vietato portare le mogli o le compagne con sé alle partite, ma quando Mara mi accompagnava io mi sentivo sereno. Ho preso persino una squalifica per questo, ma lei mi ha supportato e soprattutto sopportato. Mi fa ancora oggi la borsa, perché quelle uniche due volte che non me l’ha fatta in un caso ho dimenticato i pantaloncini e ha dovuto portarmeli al Forum di Milano e nell’altro i plantari delle scarpe e ha dovuto compiere un miracolo per farmeli arrivare a Napoli». —
GI.PE.
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